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Post/teca<br />

visione. Mi conquista ogni volta il suo modo di parlare così “inspirational”, così<br />

capace di motivare le persone e di metterle insieme sulla base di valori condivisi. E<br />

così anche ieri leggendo la sua lettera agli italiani (e quindi anche a me), alla fine<br />

della lettura mi sono detto ancora una volta: “E bravo Walter!”<br />

E’ stato un attimo. Poi ho pensato che la vicenda delle dimissioni, come Veltroni ce<br />

la racconta, non è per niente condivisibile e non può essere liquidata come una<br />

cosa marginale. Innanzi tutto per una questione di metodo, ma sostanziale: quando<br />

si perde una battaglia politica in quel modo drammatico e si giunge ad un gesto<br />

estremo come quello di lasciare acefalo un intero partito, non bastano alcuni mesi<br />

di “purgatorio” per emendarsi e riproporre in prima persona delle ricette per il<br />

paese. E’ doveroso anche ai fini della salubrità dell’aria nelle istituzioni e nella<br />

politica di un paese. Se Gordon Brown si sognasse tra 18 mesi di scrivere una<br />

lettera al popolo britannico raccontandogli “cosa farebbe lui se fosse il leader dei<br />

laburisti” dubito che troverebbe un giornale disponibile a pubblicargli la lettera, dato<br />

che gli sarebbe risposto con gentilezza che l’unica cosa rilevante è ciò che lui<br />

concretamente ha fatto quando, essendo in carica, ne ha avuto la possibilità<br />

concreta.<br />

E poi c’è la questione di merito. Le dimissioni di Veltroni sono state il frutto della<br />

paralisi a cui lo stesso Veltroni si è condannato cercando di tenere insieme tutta la<br />

dispersiva e litigiosissima nomenklatura del partito. Un’impresa impossibile, a meno<br />

di far riferimento ai 3 milioni di elettori che gli avevano dato la fiducia alle primarie e<br />

tirar dritto per la sua strada (cosa che, per ciò che posso giudicare sulla base di<br />

quanto ho visto con i miei occhi quando lavoravo nella commissione che scrisse il<br />

famigerato statuto del partito, scelse consapevolmente di non fare). Come spiega<br />

bene Andrea Romano nel suo libro “Compagni di scuola”, non si può negare che la<br />

classe dirigente del Partito di oggi – che è molto più coesa e compatta di quanto<br />

non si dia a vedere – abbia (quanto meno sul piano storico) delle responsabilità<br />

collettive su quanto accaduto negli ultimi 15 anni in Italia.<br />

Il punto è allora: con quale credibilità possiamo oggi andare a chiedere il consenso<br />

elettorale se non siamo in grado di mettere insieme un programma radicalmente<br />

innovativo rispetto sia alla devastazione del centro-destra che agli errori che noi<br />

stessi abbiamo commessi durante l’epopea berlusconiana? E con quale credibilità<br />

possiamo rappresentare una vera discontinuità se le persone che propongono e<br />

gestiscono le nostre politiche sono sempre quelle che, messe alla prova, per un<br />

motivo o per un altro, quando furono chiamate direttamente a provarci, hanno<br />

fallito?<br />

Non penso sia necessaria una tabula rasa o una pulizia etnica: le ispirazioni di<br />

Veltroni e l’esperienza di tanti altri dirigenti non vanno di certo buttate via. Eppure è<br />

veramente indispensabile mettere insieme una narrazione dell’Italia completamente<br />

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