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Post/teca<br />

nella mente di Hitler. Nel libro Mein Kampf si parla di ebrei, non di zingari. La distruzione (in lingua<br />

rom Poràjmos, il «grande divoramento») ha le sue radici nella volontà tenace, insistente, delle<br />

campagne e delle periferie urbane tedesche: un fiume di ripugnanza possente, antico, che la<br />

democrazia di Weimar non arginò ma assecondò. Chi ha visto il film di Michael Haneke Il nastro<br />

bianco sa come prendono forma i furori che accecano la mente, escludono il diverso, infine<br />

l’eliminano perché sia fatta igiene nella famiglia, nel villaggio, nella nazione. Anche l’antisemitismo<br />

ha radici simili, tutti i genocidi sono favoriti da silenziosi consensi. Ma l’odio dei Rom e dei Sinti<br />

(zingari è dal secolo scorso nome spregiativo) riscuote consensi particolarmente vasti. È un odio<br />

che ancor oggi s’esprime liberamente, nessun vero tabù lo vieta: in parte perché è sepolto nelle<br />

cantine degli animi, dove vive indisturbato; in parte perché è un’avversione non del tutto razziale;<br />

in parte perché il loro genocidio non ha generato l’interdizione sacra tipica del tabù.<br />

A differenza di quello che accadde per gli ebrei, nel dopoguerra non si innalzò in Europa una diga<br />

fatta di vergogna di sé, di memoria che sta all’erta. Si cominciò a parlare tardi degli zingari, i libri<br />

che narrano la loro sorte sono sufficienti ma non molti. E’ strano come Sarkozy, figlio di un<br />

ungherese, non abbia ricordo, quando decide l’espulsione dei rom, di quel che essi patirono in<br />

Europa orientale. È strano che non ricordi quel che patiscono ancor oggi nei Paesi da cui fuggono,<br />

perché l’Est europeo è uscito dalle dittature denunciando il totalitarismo comunista ma non i<br />

nazionalismi etnici, non l’ideologia che mette il cittadino purosangue al di sopra della persona: in<br />

Romania, Bulgaria, Ungheria, i rom sono trattati, nonostante il genocidio, come sotto-persone.<br />

Rimpatriarli spesso è condannarli ancor più. È anche un’ipocrisia, perché come cittadini europei i<br />

rom possono tornare in Francia o Italia senza visti. Spesso vengono chiamati romeni. Sarebbe<br />

bene sapere che i Rom sono detestati dalla maggioranza dei Romeni. Ovunque, la crisi economica<br />

li trasforma in capri espiatori. Il più delle volte non è la razza a svegliare esecrazione. È il modo di<br />

vivere itinerante. L’Unione, allargandosi nel 2004 e 2007, ha accolto anche questa comunità<br />

speciale, per vocazione non sedentaria, originaria dell’India, insediatasi nel nostro continente<br />

cinque-sei secoli fa, ripetutamente perseguitata.<br />

Una direttiva europea restringe la libera circolazione se l’ordine pubblico è turbato, ma la direttiva<br />

vale per i singoli e comunque decadrà nel dicembre 2013. Non è chiaro chi oggi abbia ricominciato<br />

questa storia di esclusioni, di muri che separando i nomadi dal cittadino «normale» impedisce loro<br />

di divenire sedentari se vogliono, di trovar lavori, di non cadere nelle mani di mafie. È probabile<br />

che Berlusconi e Bossi abbiano svolto un ruolo d’avanguardia: un ruolo di «modello per l’Europa»,<br />

ha detto monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei (La Stampa,<br />

22 agosto). Molti governi dell’Est si sono sentiti legittimati dall’Italia, Paese fondatore dell’Unione.<br />

Ora Sarkozy si fa megafono del fiume d’esecrazione. La parola che ha ripetuto più volte, parlando<br />

di immigrati, di rom e di delinquenza a Grenoble, era «guerra». Nello stesso discorso, il Presidente<br />

ha annunciato che il cittadino di origine straniera colpevole di delitti perderà la nazionalità francese<br />

(la parola décheance, revoca, rimanda a déchet, pattume). La democrazia non ci protegge da<br />

simili deviazioni, proprio perché la volontà del popolo è il suo cardine. Giuliano Amato lo spiega<br />

bene, in un articolo sul Sole-24 Ore del 22 agosto: ci sono momenti, e la crisi economica è uno di<br />

questi, in cui può crearsi un conflitto mortale fra i due imperativi democratici che sono l’esigenza<br />

del consenso e quella di preservare la propria civiltà.<br />

Il leader democratico ansioso di raccogliere immediati consensi vince forse alle urne, ma non salva<br />

necessariamente la civiltà («Non a caso nell’assetto istituzionale delle democrazie si distingue fra<br />

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