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120SAGGI E OPINIONImosse,enonacaso,dalSettecento:secolodisnodo,alqualegiungecompatta l’eredità del passato, ma dal quale, al contempo, si dipartonosuggestioni e intuizioni destinate a segnare il tracciato delle scelte future.L’eredità ècostituita da un processo <strong>penale</strong> che vive della parola dell’imputatoe che intorno ad essa costruisce le sue trame. Il silenzio è consideratouna sfida, un’offesa alla corretta amministrazione della giustizia:sterile dispersione del sapere giuridico in un rito, come quello inquisitorio(43 ), che riposava sulla deposizione dell’indagato e che a quella tendevacon spasmodico sforzo.Un sistema che ‘inseguiva la verità’ non poteva permettersi di soffermarsisulla tutela di istanze soggettive. L’imputato era ancora lontano dall’esserericonosciuto titolare di diritti intangibili. Egli era al servizio dellamacchina giudiziaria, protagonista, sì, ma per un unico fine: non intralciarneil corso. La sua eventuale scelta di tacere era gravida di conseguenze,tutte negative: la giustizia non poteva arretrare di fronte al rifiuto dell’accusatodi offrire risposte chiare alle sue richieste. Si individuò, perciò,nel silenzio un indizio, non sufficiente alla condanna, ma legittimo tantoda condurre alla tortura.Se non si arrivò all’estremo di considerare colpevole, e perciò condannabile,l’indagato taciturnus( 44 ), equiparandolo sic et simpliciter al con-( 43 ) Così descrive efficacemente Carmignani il rito inquisitorio: «questo processo, quasitutto concentrato in se stesso, sembra un uomo, che aspetti l’altro all’agguato» (G. Carmignani,Teoria delle leggi della sicurezza sociale, t. IV, Pisa 1832, p. 66).( 44 ) Si è cercato nel diritto romano il fondamento di tale soluzione e si è spesso guardatoal frammento di Paolo (D. 50.17.142) in cui si afferma che chi tace non può considerarsiconfessus, mentre D. 11.1.11.4. equipara il silenzio alla parola oscura. In materia di confessioni,tacite od espresse, i giuristi romani distinguevano tra ambito civile e <strong>penale</strong>, comericorda anche Nicolini: «ne’ giudizii penali non mai que’ sommi filosofi parificarono per regolagenerale alla confessione espressa del reo il suo silenzio», richiamando in questo senso ilpasso paolino sopra citato (N. Nicolini, Della procedura <strong>penale</strong> nel Regno delle due Sicilieesposta [...] colle formole corrispondenti dedicata alla Maestà del Re N.S., parte III, vol. I, Napoli1831, p. 321). Più esplicito sul punto era stato Ambrosini, il quale, annoverando il silenzio,al pari della maggioranza dei suoi colleghi, tra gli indizi sufficienti e legittimi per disporrela tortura, considerava come conseguenza ovvia che «si tacens haberetur pro confesso,utique non esset torquendus, sed condemndandus» (T. Ambrosini, Praxis criminalis siveprocessus informativus, Augustae Taurinorum 1750, lib. III, cap. VII, n. 13, p. 160). Così anchesi esprimeva Filangieri, per il quale l’equiparazione presente nel diritto romano (confessuspro iudicato est, qui quodammodo sua sententia damnatur: D. 42.2.1, ma si veda anche D.11.1.11.4 che stabilisce il principio che il silenzio serve di prova per la legittimità e la giustiziadella proposizione dell’attore) riguardava i giudizi civili e non criminali (G. Filangieri, Lascienza della legislazione, Genova 1798, t. III, pp. 240-1, nt. 2). Si veda anche uno dei piùautorevoli commentatori della Riforma toscana del 1838, A. Ademollo, Il giudizio criminalein Toscana secondo la Riforma leopoldina del MDCCCXXXVIII. Cenni teorici pratici, Firenze1840, § 1388, p. 359.

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