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Hermann Hesse - Il Giuoco Delle Perle Di Vetro - Altrestorie.net

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e così in fretta, quale potere lo spingesse ad agire cosl<br />

e a compiere quello sforzo. Pensandoci su aveva capito<br />

che in fondo al suo cuore la cosa non era molto importante e non era un gran male se laggiù, al confine,<br />

gli rapivano uomini e bestiame, che il furto e l'offesa<br />

ai suoi diritti sovrani non dovevano essere sufficienti<br />

per infuriarlo e farlo agire e che sarebbe stato meglio<br />

opporre alla notizia dell'abigeato un sorriso di compassione. In questo modo però avrebbe fatto un gran<br />

torto al messaggero che era giunto senza fiato con la<br />

notizia, nonché a coloro che erano stati derubati e a<br />

quelli che erano catturati e trascinati dalla vita pacifica alla schiavitù in terra straniera. Persino a tutti<br />

gli altri sudditi, ai quali non era stato torto un capello, avrebbe fatto ingiustizia rinunciando alla guerra<br />

e alla vendetta, poiché non avrebbero capito come mai<br />

il loro sovrano non sapesse difendere il paese e avrebbero pensato che, aggrediti a loro volta, non<br />

potevano<br />

certo sperare aiuto e vendetta. Comprese che era suo<br />

dovere compiere quella spedizione punitiva. Ma che<br />

cos'è il dovere? Quanti doveri esistono che spesso trascuriamo con disinvoltura! Per quale ragione,<br />

dunque,<br />

il dovere della vendetta non era un dovere indifferente, non lo si poteva trascurare, non bisognava<br />

compierlo con leggerezza, ma con zelo e passione? Appena<br />

formulata la domanda, il suo cuore aveva già dato la<br />

risposta, essendo ancora in preda al dolore che aveva<br />

provato staccandosi dal principino Ravana. Se il sovrano si fosse lasciato rapire uomini e bestiame senza<br />

opporre resistenza, i rapinatori e predoni si sarebbero<br />

sempre più inoltrati nel paese, finché giunti davanti a<br />

lui l'avrebbero colpito dove era più sensibile al dolore:<br />

in suo figlio. Gli avrebbero rapito il figlio e successore,<br />

l'avrebbero ucciso forse fra i tormenti e questo sarebbe<br />

stato il dolore più grande che potesse toccargli, peggiore, molto peggiore della morte di Pravati. Perciò<br />

dunque cavalcava con tanta foga ed era un sovrano così ligio al dovere. Non lo faceva per attaccamento al<br />

bestiame e alla terra, non per bontà verso i sudditi, non per ambizione di tener alto il nome paterno, ma per<br />

l'intenso, doloroso, folle attaccamento a quel bambino, per profonda e insensata paura del dolore che la<br />

perdita del bambino gli avrebbe procurato.<br />

A questo punto era arrivato con le riflessioni durante quella cavalcata. D'altro canto non aveva fatto in<br />

tempo a raggiungere e punire gli uomini di Govinda, i quali erano fuggiti con la preda, e per mostrare la sua<br />

ferma volontà e dare prova di coraggio dovette a sua volta passare il confine e devastare un villaggio del<br />

nemico trascinandosi dietro un po' di bestiame e alcuni schiavi. Era rimasto fuori di casa alcuni giorni, ma<br />

anche durante la vittoriosa cavalcata di ritorno si era immerso in profonde riflessioni ed era giunto a casa<br />

triste e taciturno poiché quelle riflessioni gli avevano fatto capire quanto fosse imprigionato, saldamente e<br />

senza speranza di scampo, in una perfida rete con tutto il suo essere. Mentre la sua tendenza a riflettere e il<br />

bisogno di pacata contemplazione e di una vita innocente e senza gesta andavano aumentando, d'altra parte<br />

l'affetto per Ravana e il pensiero per lui, per la sua vita e per il suo avvenire facevano aumentare la necessità<br />

di agire, e dalla tenerezza nasceva il conflitto, dall'amore la guerra. Soltanto per essere giusto e per punire<br />

aveva già rapito un gregge, incusso a un villaggio uno spavento mortale, trascinato via con la violenza<br />

alcuni poveri innocenti, donde naturalmente sarebbero sorte nuove vendette e violenze e così via, finché<br />

tutta la sua vita e tutto il paese sarebbero stati soltanto guerra, violenza e strepito d'armi. Questa intuizione o<br />

visione che fosse l'aveva reso così taciturno e triste in quel ritorno.<br />

Infatti il vicino ostile non si mantenne quieto, ma ripeté le incursioni e le scorrerie, sicché Dasa dovette<br />

ripartire per difendersi e castigare, e poiché il nemico si sottraeva allo scontro doveva tollerare che i suoi<br />

soldati arrecassero nuovi danni alle popolazioni. Nella capitale si vedevano sempre più armati e cavalleggeri,<br />

in alcuni villaggi di confine c'erano guarnigioni fisse; consigli e preparativi bellici rendevano inquieti i<br />

giorni. Dasa non riusciva a capire quale senso e quale utilità potesse avere l'eterna guerriglia, si addolorava<br />

per le sofferenze dei colpiti, per le morti, pensava con dolore al giardino e ai libri che era costretto a<br />

trascurare e alla pace dei suoi giorni e del suo cuore. Ne parlava spesso con Gopala, il brahmano, qualche<br />

volta anche con la moglie. Si sarebbe dovuto, diceva, fare in modo che uno dei più cospicui sovrani vicini<br />

fosse invitato a fare da arbitro e da paciere; per parte sua era ben disposto a favorire la pace mostrandosi<br />

arrendevole e cedendo alcuni pascoli e villaggi. Ma quando vide che né il brahmano né Pravati volevano<br />

sentir parlare d'un simile progetto, rimase deluso e alquanto imbronciato.<br />

La disputa in proposito portò a una violenta discussione con Pravati e a un profondo dissidio. Egli le<br />

espose, insistendo e scongiurando, il suo pensiero e le sue ragioni, ma ella prese ogni parola come fosse<br />

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