Porto Franco. I documenti del progetto, 1998-2001 - Regione Toscana
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questione di “dignità” - una dignità che sono in<br />
molti a tradurre nel linguaggio dei diritti.<br />
Spero di aver chiarito, in questo modo, almeno il<br />
titolo <strong>del</strong> mio intervento. Se mi domando “quali<br />
culture, senza diritti?”, non è per una mia personale<br />
idiosincrasia rispetto alla riflessione sulle<br />
differenze (tutt’altro), ma perché troppo spesso ho<br />
l’impressione che si parli di culture per non parlare<br />
di diritti. Se, come ci ricordava stamani Kaled,<br />
ogni epoca e ogni società produce un discorso di<br />
verità per affermare se stessa, la democratica e<br />
progressista “valorizzazione <strong>del</strong>le differenze”<br />
rischia oggi di divenire la nostra comoda verità.<br />
Non dobbiamo parlare di differenze, allora? No, io<br />
credo che dobbiamo farlo, ma tenendo conto <strong>del</strong><br />
contesto entro il quale ci muoviamo, <strong>del</strong>le relazioni<br />
sociali in cui siamo immersi – che sono sempre,<br />
come sosteneva Foucault, anche relazioni di<br />
potere. Se lo facciamo, possiamo forse accorgerci<br />
di quanto siano surreali, a volte, i discorsi sulle<br />
“culture diverse”. Di fronte a persone che vivono<br />
situazioni di pesante esclusione e di restrizione<br />
<strong>del</strong>le libertà, che sono quotidianamente<br />
inferiorizzate (anche dai nostri più benintenzionati<br />
tentativi di essere d’aiuto), non possiamo non<br />
tenere conto di un fatto: quella che dovrebbe essere<br />
una ordinaria relazione sociale, una “relazione di<br />
potere” (di “confronto strategico tra due libertà”) si<br />
è già trasformata, o nella migliore <strong>del</strong>le ipotesi si<br />
sta trasformando, in uno “stato di dominio”.<br />
Come scrive Luigi Ferrajoli, non possiamo<br />
dimenticare che il nostro universalismo nasce, in<br />
età moderna, per fornire una giustificazione teorica<br />
all’impresa coloniale (nel 1539 Francisco De<br />
Vitoria scriveva di un universale ius migrandi, di<br />
un diritto di migrare, che era chiaramente<br />
funzionale all’invasione spagnola <strong>del</strong>l’America<br />
“latina”). Ma la nostra fortuna, oggi, è che “il re è<br />
nudo”. Possiamo lavorare nella direzione di una<br />
“democrazia sostanziale”, oppure possiamo<br />
respingere l’idea di un’eguaglianza effettiva dei<br />
diritti civili, politici e sociali. Quello che non<br />
possiamo fare è fingere di non sapere che, se<br />
resteremo fermi alle nostre “democrazie reali”<br />
(formali ma non sostanziali, per semplificare un<br />
po’ brutalmente), utilizzeremo la “democrazia”<br />
così come è stato utilizzato l’universalismo in<br />
epoca coloniale: come argomento sempre presente<br />
nella giustificazione di guerre e di misure di<br />
sicurezza contro gli stranieri, ma<br />
sorprendentemente assente quando si tratta di<br />
riconoscere l’altro/a, nella sua nomade e<br />
molteplice identità, come eguale.<br />
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