CARLO SINI SCRIVERE IL FENOMENO - Filosofia.it
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leggere il motto di Husserl: noi fenomenologi «non siamo filosofi<br />
letterari». La fenomenologia non è «letteratura» e non è<br />
metafisica nel senso tradizionale. Essa è un «campo universale<br />
di lavoro» da attuarsi mediante una «prassi teorica», «mediante<br />
l’azione». Quale azione?<br />
25. Abbiamo ricondotto la descrizione fenomenologica e l’incontro<br />
col fenomeno a una genealogia delle gestual<strong>it</strong>à «donatrici<br />
di senso», come direbbe Husserl. La fenomenologia ci si è<br />
via via trasformata in una sorta di fenomenografia. Molte cose<br />
sono apparse più chiare e più convincenti; altre, di cui possedevamo<br />
solo una generica intuizione, si sono appalesate distintamente<br />
nel loro «come». Il fondo ultimo di questo lavoro resta<br />
però oscuro e problematico.<br />
Anz<strong>it</strong>utto è da correggere la nozione stessa di «gestual<strong>it</strong>à» (o<br />
di «grafema corporeo»), che va piuttosto ricondotta a un più<br />
concreto pensiero delle «pratiche». Non esistono infatti gestual<strong>it</strong>à<br />
pure, isolate ed eterne, e già le nostre analisi lo hanno chiaramente<br />
mostrato. Non c’è il vedere e l’udire, così come non ci<br />
sono occhi e orecchie, presi in questa loro astratta general<strong>it</strong>à,<br />
che è già un effetto inavvert<strong>it</strong>o della trascrizione alfabetica e<br />
del suo pensare concettuale. Il cosiddetto vedere è sempre interno<br />
a pratiche defin<strong>it</strong>e e circostanziate che vanno colte e descr<strong>it</strong>te<br />
nella loro compless<strong>it</strong>à diveniente. Certo, ogni pratica innesca<br />
altre pratiche che ne ered<strong>it</strong>ano gli elementi, reinterpretati<br />
e riorganizzati in funzione delle nuove intenzional<strong>it</strong>à ed esigenze.<br />
E ci sono anche quelle pratiche generalizzanti (anz<strong>it</strong>utto<br />
quelle della parola) che desumono gli elementi relativamente<br />
costanti in varie pratiche e li tematizzano per se stessi. Così c’è<br />
il vedere del bambino nella culla e c’è il vedere dell’adulto che<br />
osserva un quadro e ne coglie il significato estetico. Tra questi<br />
estremi ci sono innumerevoli altre pratiche che hanno condotto<br />
dalla prima pratica alla seconda, e infine anche a questo discorso<br />
che finge che il vedere sia una «cosa» (un’attiv<strong>it</strong>à funzionale,<br />
fisiologica o che altro si voglia dire), una realtà costante,<br />
sebbene soggetta a «variazioni» (il vedere dell’infante, il vedere<br />
dell’adulto «colto» ecc.). Ora comprendiamo che non esiste<br />
nulla del genere, se non come oggetto di una pratica astrattivo-<br />
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