CARLO SINI SCRIVERE IL FENOMENO - Filosofia.it
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descr<strong>it</strong>tiva; ma che dobbiamo dire poi di questo comprendere<br />
stesso? quale pratica lo caratterizza? in che modo lo si leg<strong>it</strong>tima?<br />
Il pensiero delle pratiche, che già altrove ho cominciato ad analizzare,<br />
è inquietante. Esso consente, come diceva Nietzsche,<br />
di avviare un’esperienza con la ver<strong>it</strong>à. Esperienza che infine<br />
mette in crisi se stessa e la nozione tradizionale di ver<strong>it</strong>à. In questo<br />
senso il pensiero delle pratiche è un «esercizio», come voleva<br />
Husserl, ed è un’apertura alla esistenza, cioè alla fin<strong>it</strong>udine,<br />
dell’esserci, come voleva Heidegger. L’inquietante sta in ciò:<br />
che la ver<strong>it</strong>à si rivela come un effetto interno alla pratica defin<strong>it</strong>a<br />
che la pone in esercizio; il che, essendo vero di ogni pratica, non<br />
consente di pensare una pratica come arcontica nel suo dire «la»<br />
ver<strong>it</strong>à e la ver<strong>it</strong>à di tutte le altre pratiche. Giro di parole che significa<br />
appunto e semplicemente la fine della filosofia. La filosofia<br />
stessa, infatti, ci si è rivelata come quella pratica il cui effetto<br />
di ver<strong>it</strong>à dipende, per dirla in fretta, dalla linearizzazione<br />
alfabetica della voce: evento particolare che governa nascostamente,<br />
nelle sue molteplici trasformazioni, lo sguardo ver<strong>it</strong>ativo<br />
dell’uomo occidentale. Questo non significa la riduzione del fenomeno<br />
«Europa» alla sua relativizzazione e all’insignificanza<br />
antropologica, come Husserl temeva. Leggere in questo modo,<br />
come i più oggi fanno, significa continuare a pensare che la ver<strong>it</strong>à<br />
è unica e assoluta; purtroppo ne conosciamo solo delle manifestazioni<br />
relative e perciò non vere. Così la ver<strong>it</strong>à è ancora colta<br />
dal lato del suo significato, diveniente e relativo, e non ci si è in<br />
alcun modo esposti al suo evento. E invece all’interno della fin<strong>it</strong>udine<br />
della pratica che l’evento della ver<strong>it</strong>à va tenuto fermo ed<br />
esper<strong>it</strong>o nella sua cost<strong>it</strong>utiva distanza. Il che consente di dire<br />
che, se la filosofia come pratica arcontica e «scienza della ver<strong>it</strong>à»<br />
mostra il lim<strong>it</strong>e fin<strong>it</strong>o della sua stessa prassi, non per questo<br />
si tratta di uscire dalla filosofia, magari sognando pratiche «esotiche»<br />
più soddisfacenti o più «vere». Non si tratta di lasciare<br />
l’Europa alle spalle e magari di incamminarsi verso un monastero<br />
del monte Everest. Non si tratta di questo per chi ha vissuto in<br />
proprio la formazione di un’autentica intenzional<strong>it</strong>à filosofica e<br />
non rinuncia perciò al suo destino di «buon europeo». Si tratta<br />
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