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Symposium - AIC

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Mario Vegetti<br />

attingere una forma di immortalità, che consiste precisamente nell'innalzarsi al mondo immortale della<br />

conoscenza». 20<br />

Il senso dell'assenza nel Simposio di una teoria dell'immortalità dell'anima individuale, in<br />

rapporto all'insieme del pensiero platonico, andrà discusso più avanti.<br />

E' ora il caso di considerare una posterità importante, e in qualche misura sorprendente, delle tesi<br />

sull'immortalità insegnate da Diotima; reciprocamente, questa posterità servirà a comprendere meglio<br />

il senso e la portata delle osservazioni che abbiamo svolto fin qui.<br />

2.1 C'è una straordinaria somiglianza fra la via riproduttiva all'immortalità indicata da<br />

Diotima e il modo in cui Aristotele spiega la finalità della riproduzione biologica tanto nel De anima<br />

quanto nel De generatione animalium. «La funzione più naturale (physikôtaton) degli esseri viventi<br />

[...] è di produrre un altro individuo simile a sé: l'animale un animale e la pianta una pianta, e ciò per<br />

partecipare (metechôsin), nella misura del possibile, dell'eterno e del divino. In effetti è a questo che<br />

tutti gli esseri tendono (oregetai) [...] Poiché dunque questi esseri non possono partecipare con<br />

continuità dell'eterno e del divino, in quanto nessun essere corruttibile è in grado di sopravvivere<br />

identico e uno di numero, ciascuno ne partecipa per quanto gli è possibile, chi più e chi meno, e<br />

sopravvive non in se stesso, ma in un individuo simile a sé, non uno di numero, ma uno nella specie<br />

(eidei)» (De an. II 4 415a25-b7, trad. Movia). Più brevemente ribadiva Aristotele nel De generatione:<br />

«poiché non è possibile che la natura del genere degli animali sia eterna, ciò che nasce è eterno nel<br />

modo che gli è dato. Individualmente gli è dunque impossibile [...] secondo la specie gli è invece<br />

possibile. Perciò vi è sempre un genere di uomini, di animali e di piante» (De gen. anim. II 1 731b31-<br />

732a1, trad. Lanza).<br />

Aristotele non fa così che generalizzare, estendendola all'intero mondo vivente, dagli uomini<br />

alle piante, la tesi di Diotima sull'immortalità riproduttiva. L'estensione comporta però due<br />

conseguenze. La prima è una certa de-psicologizzazione del discorso di Diotima, che sostituisce l'eros<br />

con una pulsione “naturalissima”; resta vero anche per Aristotele che l'aspirazione (orexis) verso<br />

l'eternità divina costituisce una sorta di programma genetico del vivente, che può però agire in modo<br />

del tutto inconsapevole. La seconda conseguenza è che la scena dell'immortalizzazione riproduttiva si<br />

sposta decisamente dagli individui alla specie, che ne è l'unico ambito possibile.<br />

2.2 Aristotele non riprende in modo esplicito la seconda via verso l'immortalità personale,<br />

quella perseguita dal tipo d'uomo “filotimico”. Non c'è dubbio però che egli delinei questa forma di<br />

vita e la sua connessione con la virtù e la felicità, anche se non direttamente con l'immortalità<br />

mediante la memoria. Si tratta dell'ambito delle virtù che Aristotele chiama etiche, distinguendolo da<br />

quelle “teoriche” definite, com'è noto, “dianoetiche”. Le virtù etiche non sono le prime anche se<br />

godono di una loro eccellenza. «L'agire politico e le azioni di guerra eccellono tra le azioni secondo<br />

virtù»; ne derivano «potere e onori (timàs), e comunque la felicità (eudaimonia) per se stesso e per i<br />

propri concittadini» (Eth. nicom. X 7, 1177b13-17, trad. Natali modificata). Tuttavia la felicità<br />

conseguente a questa forma di virtù è imperfetta e di secondo rango, perché condizionata da<br />

circostanze esterne e indipendenti dall'individuo agente, al quale viene richiesto un impegno oneroso e<br />

dall'esito incerto.<br />

2.3. Inequivocabile invece la ripresa aristotelica della terza via verso l'immortalità personale,<br />

quella filosofica: 21 essa è manifestata in un passo dell'Etica nicomachea dal forte rilievo retorico,<br />

centrato sul verbo athanatizein, un hapax nel corpo aristotelico. 22 Nel celebre capitolo 7 del libro X, 23<br />

Aristotele decreta il primato della vita teoretica, in quanto attività secondo la migliore virtù umana,<br />

quella esercitata dal nous nella conoscenza delle cose «belle e divine», da cui consegue la sua capacità<br />

di pervenire alla «felicità perfetta (teleia eudamonia)» (1177a12-17). Questa vita consiste nell'attività<br />

dell'elemento divino inerente alla vita umana, appunto il pensiero. Per questo, aggiunge Aristotele,<br />

«non si deve, essendo uomini, limitarsi a pensare a cose umane, né essendo mortali pensare solo a<br />

cose mortali, come dicono i consigli tradizionali, ma rendersi immortali fin quanto è possibile (ἐφ´<br />

ὅσον ἐνδέχεται ἀθανατίζειν) e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi. Anche se<br />

20 Cfr. CASERTANO (2012) pp. 64-5 (anche nota 49 a p. 67). Nello stesso senso LEAR (2006) p. 115 nota 25 («nel mondo del<br />

Simposio le pratiche culturali durano più a lungo delle anime perché le anime sono mortali. E le scienze sono ancora più<br />

“immortali” perché sono associate a oggetti atemporali»); FERRARI (2012) p. 39 (l'eternazione del sapere come unica forma<br />

di immortalità umana); ROWE (1998) pp. 112-13. Per il Timeo cfr. CENTRONE (2007) p. 42. Per posizioni opposte cfr. nota<br />

25.<br />

21 La vicinanza di Aristotele a Platone su questo tema è stata segnalata e discussa da ARENDT (1991) pp. 70-129.<br />

22 Cfr. in proposito VEGETTI (2007A) pp. 165-66, 174-76. Un accenno all'influsso di Simposio e Timeo 90c su questo passo<br />

aristotelico è formulato da SIER (1997) pp. 187 sg.<br />

23 La critica ha spesso rilevato il carattere anomalo di questo e del seguente capitolo rispetto al tono generale del trattato<br />

etico: la discussione relativa in VEGETTI (2010) pp. 202-10.<br />

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