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Platone, la virtù e un gioco di specchi:<br />
guardare il filosofo con gli occhi del φιλότιµος<br />
Federico M. Petrucci<br />
Alcibiade ubriaco irrompe nel Simposio, e una svolta scuote il dialogo: il suo discorso, ibrido di lode<br />
e biasimo, impone una riflessione sulla figura di Socrate. Alcibiade potrebbe cogliere alcune carenze<br />
delle posizioni espresse da Socrate o, al contrario, causare un netto abbassamento del discorso per la<br />
propria pochezza; in ogni caso, quando egli, uomo timocratico - quale è secondo recenti studi 1 -,<br />
prende la parola la forza teoretica del Simposio sembrerebbe ormai indebolirsi. E tuttavia, un'analisi<br />
dialettica del rapporto tra le dottrine espresse da Socrate e quelle introdotte da Alcibiade<br />
(apparentemente meno impegnative) può ricomporre tale apparente frattura 2 . In questo breve<br />
intervento vorrei concentrarmi sulle possibili interazioni tra questi due piani, tentando di indicare:<br />
• che nella descrizione delle virtù di Socrate prodotta da Alcibiade, il φιλότιµος proietta sul<br />
filosofo il proprio modello di virtù;<br />
• che tra questa descrizione "orientata" e l'autentica virtù del filosofo sussiste comunque una<br />
dialettica organica;<br />
• che proprio grazie a questo "gioco di specchi" Platone può descrivere il filosofo come capace<br />
anche di agire in modo virtuoso all'interno del contesto della πόλις.<br />
Il discorso di Diotima si apre con un riferimento netto all'esigenza conoscitiva propria del filosofo, per<br />
poi chiarire, nell'approssimarsi verso la scala amoris, la distanza tra l'eros del filosofo e quello, ben<br />
più tradizionale, proprio dei φιλότιµοι (208c-d). Questi ultimi, al fine di acquisire gloria eterna, sono<br />
pronti a correre pericolosamente pericoli di ogni genere ancora più che per i figli, e a spendere<br />
ricchezze e a faticare fatiche d'ogni tipo e a morire al posto di altri 3 (καὶ ὑπὲρ τούτου κινδύνους τε<br />
κινδυνεύειν ἕτοιµοί εἰσι πάντας ἔτι µᾶλλον ἢ ὑπὲρ τῶν παίδων, καὶ χρήµατα ἀναλίσκειν καὶ πόνους<br />
πονεῖν οὑστινασοῦν καὶ ὑπεραποθνῄσκειν). [trad. it. di Matteo Nucci]. Così si aspira a una ἀθάνατος<br />
ἀρετή (208d5-6). Il termine ἀρετή è qui da intendere in termini tradizionali, quelli dell'agire in modo<br />
coraggioso e valoroso per procurarsi gli onori pubblici. Diverso è invece il fine di chi è gravido<br />
nell'anima, il quale aspira ad acquisire φρόνησίν τε καὶ τὴν ἄλλην ἀρετήν (209a4). Questi, se svolge<br />
in modo corretto la propria formazione, se vive in modo compiuto la vicinanza intellettuale con un<br />
altro come lui, vede nei λόγοι περὶ ἀρετῆς (209b8) un frutto - con un chiaro parallelismo rispetto al<br />
tipo umano precedente - più importante anche dei figli (209c2-6). Ancora più significativo è che<br />
costui, il filosofo, giunga, apprendendo i grandi misteri della contemplazione del bello ideale, a una<br />
vera virtù piuttosto che a εἴδωλα ἀρετῆς (212a2-7). Nel volgere di poche pagine, dunque,<br />
all'avvicendarsi dei tipi umani considerati corrisponde l'implicito sviluppo semantico di una nozione<br />
chiave, ἀρετή, che da presidio tradizionale diviene la complessa base dell'identità morale del filosofo.<br />
Un simile quadro sembrerebbe condurre verso una prospettiva fortemente caratterizzata in<br />
senso intellettualistico: la realizzazione compiuta dell'intera virtù passa per il momento più alto a cui<br />
può accedere la conoscenza umana, la contemplazione dell'idea. Pare così riprodotto un modello<br />
classico, ben rintracciabile, ad esempio, in un noto passo del Fedone (68b8-69c3): a forme non<br />
intellettualisticamente fondate di virtù - εὐήθης σωφροσύνη e ἀνδρεία δειλίᾳ -, proprie di chi non è<br />
filosofo, Platone oppone l'unica vera moneta per la virtù compiuta, la φρόνησις. In entrambi i passi, in<br />
effetti, sembra essere elevata al rango di unica virtù quella fondata sulla conoscenza e svalutata quella,<br />
tradizionale, propria dell'uomo timocratico, che consente nella società l'accesso agli onori politici e<br />
militari. Quest'ultima, definita anche πολιτική e δηµοτική (Phaed. 82a11), è dunque una virtù di<br />
secondo livello che anche nel Simposio Platone sembrerebbe svalutare, relegandola nell'ambito della<br />
φιλοτιµία, molto lontana dalla vera virtù filosofica 4 . In effetti, se il dialogo non comprendesse il colpo<br />
1 Ai quali si rimanda per argomentazioni più dettagliate circa questo punto; cfr.. M.C. Howatson, F.C.C. Sheffield (eds.),<br />
Plato. The <strong>Symposium</strong>, Cambridge 2008, XXVI-XXVIII e partic. B. Centrone, M. Nucci, Platone. Simposio, Torino 2009,<br />
XXXVII-XXXVIII.<br />
2 La critica ha ormai ampiamente riconosciuto una correlazione stretta tra il discorso di Socrate e quello di Alcibiade, benché<br />
circa i caratteri di tale rapporto non ci sia una convergenza; per uno status quaestionis aggiornato cfr. P. Destrée, The Speech<br />
of Alcibiades (212c4-222b7), in C. Horn (ed.), Platon, Symposion, Berlin 2012, 191-205.<br />
3 Questa e le seguenti traduzioni sono di M. Nucci, in Centrone, Nucci, op. cit.<br />
4 L'associazione, implicitamente raccolta già nella tradizione platonica (cfr. ad es. Plot. I 2, con L. Gerson, A Platonic<br />
Reading of Plato's <strong>Symposium</strong>, in J. Lesher, D. Nails, F.C.C. Sheffield (eds.), Plato's <strong>Symposium</strong>. Issues in Interpretation<br />
and Reception, Washington 2006, 56-57), è stata sostenuta da B. Centrone, M. Nucci, op. cit., XXX. Una dimostrazione