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Symposium - AIC

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Piera De Piano<br />

loro intelligenza: i demoni sono aurei non perché realmente fatti d’oro, ma perché luminosi nella loro<br />

bellezza e bontà; ora chi è buono è anche saggio, dunque i δαίµονες ricevono la loro denominazione<br />

dal loro essere δαήµονες, sapienti. Diversa è l’origine del termine greco ricostruita da Proclo ed anche<br />

dalla moderna scienza etimologica: piuttosto che da una radice in comune col verbo διδάσκω, che<br />

collegherebbe la figura del demone alla conoscenza, gli studiosi moderni rimandano la natura<br />

semidivina all’elemento della divisione, riconducendo il termine greco al verbo δαίοµαι e alla radice<br />

indoeuropea *da(i) 8 . Il demone sarebbe dunque colui che assegna le parti, le distribuisce. Così spiega<br />

Proclo:<br />

[Dei generi posteriori agli dèi alcuni] sono chiamati demonici (τὰ δαιµόνια) in quanto legano insieme<br />

la parte centrale dell’universo (ὡς τὴν µεσότητα συνδέοντα) e distribuiscono la potenza divina (τὴν<br />

θείαν δύναµιν µερίζοντα) e la portano avanti fino alle ultime cose: suddividere (τὸ µερίσαι) è infatti<br />

dividere (δαῖσαι) 9 .<br />

È proprio la distribuzione, la condivisione che sembra connotare il posto centrale di Eros nel dialogo<br />

platonico, quel posto che è µεταξύ tra sapienza e ignoranza, tra il divino e il mortale, e che racconta in<br />

maniera pervasiva la gerarchica successione degli ordinamenti divini nel platonismo procliano 10 .<br />

Prima di soffermarci più specificamente sul ruolo destinato ai demoni e agli eroi dal filosofo licio, è<br />

opportuno fissare alcuni punti essenziali del contesto esegetico in cui le riflessioni sull’ordinamento<br />

demonico degli dèi si inseriscono.<br />

Dalla prospettiva procliana, il rapporto che lega il nome al suo referente è un rapporto<br />

iconico e l’onomaturgia, in quanto tecnica di assimilazione di una copia ad un modello, è un’attività<br />

umana condivisa per analogia con la dimensione divina 11 . Se, però, l’uomo nomina in maniera<br />

inevitabilmente fallibile, poiché opera con oggetti inseriti in una temporalità e in una spazialità di cui<br />

può avere solo una conoscenza altrettanto mutevole e corruttibile, l’onomaturgia divina si pone al<br />

principio stesso delle cose nominate, per cui il nome divino delle cose coincide con la cosa stessa. Il<br />

contenuto veridico del nome divino può però essere trasferito ai filosofi da una figura che, pur non<br />

essendo un dio, è a questo più vicino di quanto non lo sia il filosofo stesso, e cioè dal poeta. Coloro<br />

che sono ispirati (oi̔ ἐνθουσιάζοντες) hanno il compito di mostrare ai filosofi il reale oggetto di ricerca<br />

di cui sono a conoscenza per insegnamento divino 12 . Il principio dell’ἐνθουσιασµός, che Platone nello<br />

Ione evoca a dimostrazione dell’ignoranza del poeta, della sua mancata scienza di ciò che racconta, e<br />

di conseguenza della sua profonda distanza dal filosofo 13 , diventa, invece, nell’esegeta neoplatonico,<br />

proprio per il filosofo, uno strumento epistemico e perciò l’elemento di salvezza del linguaggio<br />

poetico. Il poeta arcaico, proprio perché ἔνθεος, è più prossimo al linguaggio corretto di produzione<br />

divina e al tempo stesso si pone al centro tra gli dèi e gli uomini che da lui apprendono il vero<br />

linguaggio. Coerentemente con il principio fondamentale del neoplatonismo, per cui tanto maggiore è<br />

il grado di originarietà, quindi di indeterminatezza, del reale, tanto minore è la possibilità che esso sia<br />

dicibile, nel suo Commento al Cratilo Proclo individua diversi gradi di nominabilità del divino, che<br />

vanno dalla assoluta indicibilità dei συνθήµατα, a noi visibili solo attraverso figure luminose 14 (τοῦ<br />

φωτὸς χαρακτῆρες), alla forma intermedia dei σύµβολα, i suoni inarticolati delle pratiche teurgiche,<br />

fino ad arrivare ai veri e propri ὀνόµατα, nomi con cui gli dèi vengono nominati e celebrati nelle<br />

8 Dalla stessa radice derivano le forme verbali attive δαΐζω «dividere» e δαίνυµι «distribuire» e, detto di cibo, «banchettare»,<br />

da cui il termine δαίς, «pasto» o «banchetto» in cui ciascuno ha la sua parte. Cfr. Chantraine 1968, sub voces δαίµων e<br />

δαίοµαι, pp. 246-247 e Lévêque 1993.<br />

9 Procl. In Crat. CXXVIII, 75, 19-21 ed. Pasquali. La traduzione è di Romano 1989, lievemente modificata. Cfr. anche<br />

Herm. In Phaedr. 39, 20-22 in cui si piega che Eros è un grande demone perché partecipa del bello in maniera divisa e non<br />

unitaria: «δαίσασθαι γὰρ τὸ µερίσασθαι».<br />

10 Sul ruolo ontologico dei demoni, sulla funzione di mediazione tra le realtà divine e quelle umane, traducendo la<br />

provvidenza trascendente, universale e unitaria in una provvidenza prossima, particolare e plurale cfr. anche Procl. In Tim. I,<br />

39, 30 – 40, 10 ed. Diehl. Tralascerò in questa sede questioni relative alla dimensione demonica delle anime particolari.<br />

Sull’argomento cfr. Steel 1978, Di Pasquale Barbanti 2001 e, in particolare sul demone di Socrate, De Vita 2011.<br />

11 Cfr. Procl. In Crat. LI, 18, 9 – LIII, 23, 25. Sull’argomento cfr. Abbate 2001, pp. 39-45, 55-61 e De Piano 2013. Sulla<br />

natura iconica, dunque mimetica, del linguaggio già in Platone cfr. Palumbo 2008, pp. 334-364.<br />

12 Procl. In Crat. LXVIII, 29, 11-12.<br />

13 Il poeta divinamente ispirato è assolutamente inconsapevole (ἔκφρων) e l’intelletto (νοῦς) non è più in lui; egli, «κοῦφον<br />

γὰρ χρῆµα ... καὶ πτηνὸν καὶ ἱερόν, Ion. 534b3-4», non è capace di comporre alcunché se prima non è colmo di divino<br />

(ἔνθεος, 534b5). Sull’ispirazione poetica nella tradizione arcaica e in Platone mi limito a rimandare in questa sede a<br />

Tigerstedt 1969 e Murray 1981 (da Omero a Pindaro) e, più specificamente per Platone, a Velardi 1989 e Giuliano 2005, pp.<br />

137-218.<br />

14 Cfr. Or. Ch. fr. 145 Des Places e si veda, per un interessante commento su tale immagine di ascendenza caldaica, Pépin<br />

1981, pp. 50-53.<br />

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