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La trasmissione imperfetta - fasopo

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RUOLO SOCIALE DEI GIOVANI 175<br />

considerabile come quello di un adulto. <strong>La</strong> mia affiliazione a loro mi collocò<br />

dunque in un ruolo dal quale era molto facile interagire con adulti e con<br />

giovani che già disponevano di qualche capitale simbolico o economico.<br />

Tuttavia pose inevitabilmente maggiore distanza tra me e i giovanissimi con<br />

i quali l‟avvicinamento ha richiesto altre strategie.<br />

Emblematico di questo fu una conversazione avvenuta durante uno<br />

dei primi focus group da me organizzati. I presenti erano un gruppo di<br />

studenti che frequentavano i primi anni della secondary school. <strong>La</strong> loro età<br />

anagrafica variava tra i tredici e i vent‟anni. Il focus group si è rivelato uno<br />

strumento importante per discutere con i più giovani, in quanto permetteva<br />

di superare la timidezza invece generalmente insita nelle relazioni uno a<br />

uno. Il gruppo era composto da quattro ragazzi e da cinque ragazze. <strong>La</strong> loro<br />

postura da subito risultò un dato interessante. Le ragazze da una parte,<br />

sedute vicinissime tra loro – quasi a voler nascondersi l‟un l‟altra - e i<br />

ragazzi dall‟altra seduti ognuno occupando uno spazio considerevole e<br />

distanti tra loro: apparentemente chiuse e nascoste le donne, aperti e<br />

impositivi i ragazzi. Un giovane, la cui omosessualità mi è stata poi<br />

confermata, era rimasto seduto in disparte da solo. <strong>La</strong> partecipazione alla<br />

discussione coinvolse solo tre ragazzi e dopo qualche incitamento una<br />

ragazza. Io mi presentai per nome cercando di mantenere un atteggiamento<br />

il più possibile informale. Il mio obiettivo era cercare di avvicinarmi a loro,<br />

scavalcando le barriere intergenerazionali. Tuttavia il mio tentativo non<br />

funzionò. M., un ragazzo di diciassette anni, il più loquace partecipante,<br />

chiese il mio cognome (isibongo). Dicendolo dissi anche che il mio<br />

cognome era piuttosto complicato da pronunciare e che loro potevano<br />

benissimo chiamarmi per nome. M. rispose che ciò non era possibile, in<br />

questo modo mi avrebbero mancato di rispetto. Mi avrebbe chiamato utisha,<br />

insegnante.<br />

Chiamare per nome una persona a cui è necessario portare hlonipha<br />

è un atto assolutamente oltraggioso. Il voler entrare in contatto con dei<br />

giovani utilizzando strategie che già avevo collaudato nel paese in cui vivo<br />

si rivelò un errore. Il ruolo sociale che avevo assunto localmente era molto<br />

simile a quello di un adulto. Per questo le distanze intergenerazionali<br />

sarebbero state palesi anche nelle relazioni tra me e i giovani. <strong>La</strong> scarsità<br />

quantitativa di etnografie, in cui è privilegiato il punto di vista dei giovani,

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