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le donne e il lavoro sognato. - Cestim

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selvagge, s<strong>le</strong>gate dai loro universi simbolici. Ma questo è <strong>il</strong> frutto dei cambiamenti portati<br />

dal processo di globalizzazione, perché viaggiamo di più, consumiamo prodotti mediatici di<br />

diverse culture, siamo inondati di modelli culturali diversi e spesso in conflitto fra loro. Qui,<br />

Bauman sembra fornire una prospettiva “classista” a questo processo : chi veramente lo<br />

vive in prima persona, sono i membri della borghesia globalizzata, che viaggiano da un<br />

continente all’altro in breve termine, che in pochi giorni si trovano a confrontarsi con<br />

culture diverse. Per gli altri, per la classe operaia e la classe media globalizzata, c’è solo la<br />

possib<strong>il</strong>ità di una mediocre imitazione di questa macedonia cultura<strong>le</strong> che come abbiamo<br />

già visto è spesso solo un assemblaggio privo di senso di oggetti culturali.<br />

A questo proposito, una prospettiva intercultura<strong>le</strong> dell’identità e del sé dovrebbe poter<br />

rivendicare per <strong>il</strong> soggetto, per la persona, uno spazio di libera elaborazione del sé, per<br />

mondarlo da questi condizionamenti intrusivi, ma questo è un prob<strong>le</strong>ma che non riguarda i<br />

soli migranti, ma tutti i “cittadini del mondo”.<br />

L’opera di Tobie Nathan e di Pierre Bourdieu, ci consigliano però di muoverci con più<br />

cautela in quest’ambito identitario : Nathan, attraverso l’ut<strong>il</strong>izzo del dispositivo<br />

etnopsichiatrico, ci ha mostrato come anche l’accettazione cosciente di modelli culturali<br />

“altri”, “moderni”, non ci impedisca di star ma<strong>le</strong> in modo “tradiziona<strong>le</strong>”, come quindi esista<br />

un nuc<strong>le</strong>o identitario comunitario, col<strong>le</strong>ttivo, non rimpiazzabi<strong>le</strong> a piacere, sebbene questo<br />

non sia identificabi<strong>le</strong> assolutamente con un nuc<strong>le</strong>o da intendersi in modo “proprietario”<br />

della tradizione : non sono nostre <strong>le</strong> tradizioni, <strong>le</strong> tradizioni ci abitano, ci permeano, perché<br />

<strong>le</strong> abbiamo frequentate, non perché siamo fatti di esse. Bourdieu, con l’elaborazione del<br />

concetto di habitus, ci indica come siano del<strong>le</strong> predisposizioni inconsce a determinare in<br />

parte <strong>il</strong> nostro comportamento e la nostra adesione o meno a dei modelli culturali.<br />

Dobbiamo quindi fare molta attenzione a non trascurare <strong>il</strong> dato cultura<strong>le</strong>, l’appartenenza<br />

cultura<strong>le</strong> che ci caratterizza. Non si tratta certamente di sposare la tesi di un’identità<br />

solitaristica ed originaria, si tratta invece di considerare che siamo stati “prodotti” anche da<br />

un contesto socia<strong>le</strong>, da un contesto cultura<strong>le</strong> ben determinato, la cui influenza può essere<br />

modificata, attraverso la nostra prassi, l’azione, ma del qua<strong>le</strong> non ci possiamo sbarazzare<br />

in modo semplicistico e vel<strong>le</strong>itario.<br />

Forse non siamo solo ciò di cui siamo fatti, ma se non riconosciamo ciò di cui siamo fatti,<br />

rischiamo di non essere.<br />

Diversa, come abbiamo visto, è la situazione dei migranti transnazionali, col loro “vissuto<br />

diasporico”, per i quali l’incertezza identitaria, non è un lusso <strong>le</strong>gato alla globalizzazione,<br />

ma una comp<strong>le</strong>ssità esistenzia<strong>le</strong> alla qua<strong>le</strong> non si possono sottrarre.<br />

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