PENSIERO E SENSO NELL'ESPERIENZA ... - FedOA
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stesso è “attualmente presente dinanzi a noi”. Il modo di coscienza caratteristico degli atti<br />
rappresentativi è chiamato da Husserl “Meinen” o intendere. È in questi testi del 1893,<br />
specialmente in connessione con gli atti rappresentativi, che Husserl per la prima volta perviene<br />
al concetto di intenzione. Ma egli prosegue con il dire che l’intenzione è un “interesse teso” verso<br />
un contenuto che non è dato» (Id., The development of Husserl’s thought, in The Cambridge<br />
Companion to Husserl, ed. by B. Smith and D. W. Smith, Cambridge University Press,<br />
Cambridge 1995, pp. 45-77, qui p. 51). D’altra parte, per una considerazione del problema da una<br />
prospettiva che privilegi il punto d’osservazione offerto da Brentano, si considerino le lucide<br />
pagine introduttive a Psychologie vom empirischen Standpunkt curate da O. Kraus, il quale ha in<br />
particolare sottolineato come fosse necessario chiarire il termine “oggetto” nel suo duplice<br />
significare. Esso, infatti, «se viene usato nel senso di fatto, cosa o reale, allora è un’espressione<br />
autosignificante. In questo caso non significa altro se non che ciò che pensiamo nel più alto<br />
concetto generale, raggiungibile astraendo dalle intuizioni e per il quale Brentano usa anche<br />
l’espressione “essere, fatto, reale”. Se invece si usa “oggetto” e “obietto” in costruzioni come<br />
“avere qualcosa per obietto” e “avere qualcosa per oggetto”, allora la parola “oggetto” non è<br />
autosignificante, ma co-significante (sinsemantica), poiché questa costruzione potrebbe<br />
benissimo essere sostituita dall’espressione “presentare qualcosa. (...). Il fatto che la parola<br />
“oggetto” (“obietto”) venga usata una volta per indicare il cosiddetto “obietto immanente<br />
intenzionale o mentale” e un’altra per indicare ciò che Brentano nelle sue lezioni chiamava<br />
“oggetto per eccellenza” o “cosa” disturba tanto quanto l’assoluta ignoranza della funzione cosignificante<br />
di questa parola quando si parla “dell’obietto intenzionale”. Questa ignoranza<br />
preclude completamente la comprensione del processo di coscienza e fa precipitare la filosofia in<br />
un “mare di illusioni”» (Id., Einleitung zu F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt,<br />
cit.; trad. it. di G. Gurisatti, Introduzione all’edizione del 1924, in F. Brentano, Psicologia dal<br />
punto di vista, cit., pp. 6-53, qui pp. 7-8). Ad integrazione di questi assunti, T. W. Adorno<br />
osservava in tono assai critico verso la fenomeologia che «la dimostrazione dell’interpolazione di<br />
un concetto sinsemantico per uno autosemantico caratterizza in termini di teoria del significato le<br />
reificazione nel suo risultato, senza però svilupparla dalla sua origine. Che la teoria husserliana<br />
della logica trascuri persino il suo “oggetto in generale”, la sua relazione con qualcosa di<br />
oggettivo implicita nel significato delle proposizioni logiche, e che la logica stessa nell’errore<br />
ricavato da Kraus venga ridotta ad oggetto, sono soltanto due aspetti differenti della medesima<br />
faccenda» (Id., Zur metakritik der Erkenntnistheorie. Studien über Husserl und die<br />
phänomenologischen Antinomien, Kohlhammer, Stuttgart 1956; trad. it. di A. Burger Cori,<br />
Metacritica della teoria della conoscenza. Studi su Husserl e sulle antinomie fenomenologiche,<br />
Mimesis, Milano 2004, p. 102). Le stigmatizzazioni d’Adorno trovano ulteriore giustificazione<br />
se, d’accordo pure con le indicazioni offerte da M. Lenoci, si ha riguardo al fatto che nella lettera<br />
ad A. Marty del 17 marzo 1905, Brentano sostenga «che l’espressione “oggetto immanente” è<br />
stata introdotta per indicare che il soggetto pensante ha qualcosa come oggetto, anche quando ad<br />
esso non corrisponde nulla di esistente fuori dalla mente: tuttavia, un tale oggetto non esiste;<br />
ancor meno esiste come pensato o rappresentato». Se ne deduce, quindi, che «benché Brentano<br />
affermi che l’oggetto immanente non è equivalente all’oggetto pensato come tale, tuttavia la<br />
scomparsa di questo coincide con il venir meno di quello: in tal modo, essi vengono di fatto, e<br />
indebitamente, assimilati» (Id., Concezione dell’essere e problematiche gnoseologiche nel<br />
pensiero di Franz Brentano, in La differenza e l’origine, a c. di V. Melchiorre, Vita & Pensiero,<br />
Milano 1987, pp. 153-185, qui p. 177). D’altronde già L. Gilson aveva indicato nella lettera del<br />
1905 il luogo in cui la dottrina sull’oggetto immanente – all’altezza della Psychologie ancora<br />
partecipe di un significato che, pur sostenendo l’indifferenza, ai fini della rappresentazione,<br />
dell’esistenza o meno fuori di noi della cosa rappresentata, accreditava quest’ultima di un<br />
principio d’esistenza intenzionale o mentale – ottiene un senso nuovo, in base al quale l’oggetto<br />
stesso non esiste punto qualunque sia il pensiero che se ne abbia, sicché può a giusta ragione dirsi<br />
che nell’ultima psicologia descrittiva di Brentano «l’esistenza mentale dell’oggetto immanente e<br />
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