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PENSIERO E SENSO NELL'ESPERIENZA ... - FedOA

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«A palpitare così in fondo al mio essere sarà, certo, l’immagine, il ricordo visivo che, legato a<br />

quel sapore, si sforza di seguirlo fino a me. Ma troppo lontano, troppo confusamente si dibatte;<br />

colgo a stento il riflesso neutro in cui si confonde l’inafferrabile vortice dei colori rimescolati; ma<br />

non arrivo a distinguere la forma, unico interprete al quale potrei chiedere di tradurmi la<br />

testimonianza del suo compagno, il sapore, di spiegarmi di quale circostanza particolare, di quale<br />

epoca del passato si tratta» 693 .<br />

Ed invero il gusto, una volta interrogato, soccorre nello stabilire un criterio<br />

metonimico che consenta al ricordo di svilupparsi entro un contesto mentale, nel<br />

quale è possibile realizzare un transfert delle diverse sensazioni, sostituendo, di<br />

volta in volta, la causa all’effetto e viceversa 694 . Il gusto, infatti, al pari del tatto o<br />

dell’udito si modifica conciliandosi con immagini prettamente visive, ma ciò<br />

avviene in virtù di un più complesso processo evocativo, il quale, seguendo un<br />

ordine temporale che non si basa su istanti immobili e perciò tali da doversi<br />

racchiudere in una evanescente unità, non necessita, per dispiegarsi, di una<br />

contemporaneità fra le diverse sensazioni; piuttosto, è sufficiente che abbia luogo<br />

una «irradiazione metonimica», intendo questa come una «solidarietà di ricordi<br />

che non comporta nessun effetto di sostituzione», perché si possa assistere ad un<br />

processo anamnestico sostanzialmente illimitato 695 . D’altra parte, se vi sono due<br />

693 M. Proust, Du côté de chez Swann, cit., pp. 45-46; trad. it. p. 57.<br />

694 Cfr. Ivi, pp. 46-47; trad. it. pp. 58-59. S. Ullmann, Style in the French Novel, Blackwell,<br />

Oxford 1964, ha osservato che in Proust «l’interesse per le impressioni sensoriali non si limitava<br />

alla loro qualità intrinseca e alle analogie da essa eventualmente suggerite: egli era parimenti<br />

affascinato dalla loro capacità di evocare altre sensazioni e l’insieme del contesto d’esperienza<br />

cui esse erano associate. Ne deriva l’importanza delle sensazioni nel processo della memoria<br />

involontaria» (Ivi, p. 197). A giusta ragione, quindi, G. Genette, sulla scorta di queste<br />

annotazioni di Ullmann, afferma che il vero “miracolo” proustiano non consiste nel fatto che un<br />

biscotto inzuppato nel tè abbia il medesimo sapore di un altro biscotto, anch’esso inzuppato nel<br />

medesimo infuso, ma che quest’ultimo biscotto «risusciti insieme a sé una stanza, una casa,<br />

un’intera città, e che tale luogo possa, per lo spazio di un secondo, “scuotere la solidità” del<br />

luogo attuale, forzarne le porte e farne vacillare i mobili» (Id., Métonymie chez Proust, in Id.,<br />

Figures III, cit.; trad. it. di L. Zecchi, Metonimia in Proust, in Figure III, cit., pp. 41-66, qui p.<br />

60).<br />

695 G. Genette, Figure III, cit., pp. 60 e 65. L’interpretazione data da Genette, nel mettere in<br />

evidenza «il ruolo della metonimia nella metafora» (Ivi, p. 42), fa premio sulla tendenza di<br />

Proust a definire “metafora” qualsiasi figura d’analogia (Cfr. Id., La rhétorique restreinte, in Id,<br />

Figures III, cit.; trad. it. di L. Zecchi, La retorica ristretta, in Figure III, cit., pp. 17-40, in part.<br />

pp. 25-26 e p. 30); tuttavia essa trascura di considerare il valore linguistico e teoretico di cui è<br />

latrice la metafora, la quale – come ha mostrato P. Ricoeur – se prevale sulla metonimia non lo si<br />

deve al fatto che «la contiguità è una relazione più povera della somiglianza, o ancora perché i<br />

rapporti metonimici sono esterni, dati nella realtà, mentre le equivalenze metaforiche sono create<br />

dall’immaginazione, quanto piuttosto dal fatto che la produzione di una equivalenza metaforica<br />

mette in gioco delle operazioni predicative che la metonimia ignora» (Id., La métaphore vive,<br />

Seuil, Paris 1975; trad. it. di G. Grampa, La metafora viva, Jaca Book, Milano 1976, pp. 176-<br />

177). In tal senso, senza nulla togliere alla tesi avanzata da Genette, sarebbe forse utile<br />

sottolineare che, anche in Proust, se si accetta la distinzione posta esemplarmente da Ricoeur, è<br />

assai difficile limitare l’uso della metafora al suo significato retorico tradizionale, dovendosi<br />

piuttosto riconoscere il tentativo d’oltrepassare, attraverso il ricorso a codesta figura retorica, non<br />

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