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Volume - Fondazione toscana sostenibile

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secolo scorso vede poi alternarsi fasi diverse.<br />

Si può identificare infatti una prima lunga fase (1948-78) di discreta autonomia finanziaria<br />

per il governo decentrato (rappresentato sostanzialmente solo da Comuni e Province),<br />

anche se esercitata su funzioni limitate, a cui segue una fase di scarsa autonomia<br />

(1979-1992) esercitata tuttavia su una gamma più ampia di competenze (la sanità, soprattutto),<br />

fase che si conclude quando sia gli Enti locali che le Regioni vengono chiamati (con<br />

strumenti fiscali consistenti come ICI ed IRAP) ad affiancare l’azione fiscale dello Stato e<br />

quando si apre la prospettiva di un consistente decentramento di funzioni dal centro alla<br />

periferia.<br />

Se questa può essere la sintesi in termini aggregati dei gradi di autonomia che sono<br />

stati via via concessi alle autonomie locali, è interessante verificare quanto, all’interno di<br />

questa cornice istituzionale, si siano verificati modelli alternativi di comportamento nelle<br />

diverse aree del Paese.<br />

Nel primo dopoguerra, infatti, l’autonomia fiscale concessa agli Enti locali, sia pure<br />

basata su imposte non appropriate, consentì margini di comportamento differenziato alle<br />

varie comunità locali, tanto che la riforma fiscale dei primi anni ‘70 -che sostituì con trasferimenti<br />

erariali le preesistenti imposte- intese rendere più efficiente il prelievo tributario<br />

cristallizzando una situazione già molto diversificata. Nei fatti questa stabilizzazione non si<br />

realizzò a causa della pratica, allora ricorrente, di finanziamento attraverso mutui dei disavanzi<br />

correnti, pratica che per diversi anni contribuì a far divergere ulteriormente i comportamenti<br />

dei governi locali.<br />

Nella successiva fase, quella della finanza derivata (le spese dei governi decentrati<br />

erano prevalentemente finanziate da trasferimenti con maggiore o minore vincolo di destinazione)<br />

che più o meno si può collocare fra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘90,<br />

queste differenze vengono effettivamente “congelate”. Le Regioni infatti, subito dal loro<br />

avvio, ricevono risorse centrali calcolate su fabbisogni più o meno standard, generalmente<br />

approssimati dalla popolazione residente, mentre le entrate per gli enti locali tendono a<br />

“convergere” per l’impegno perequativo del Ministero dell’Interno. All’inizio degli anni ‘90,<br />

quando si riaprono i margini di autonomia, emergono di nuovo con chiarezza i differenti<br />

modi di concepire i compiti degli Enti locali, ovvero i comportamenti differenziati degli amministratori<br />

pubblici.<br />

216<br />

13.3<br />

La “via <strong>toscana</strong>” al decentramento<br />

Ragioni storiche, orientamenti politici, esigenze indotte dai meccanismi di sviluppo dominanti<br />

hanno fatto affermare in Toscana una solida tradizione di elevato intervento pubblico<br />

che inevitabilmente si accompagna ad alti livelli di spesa e ad elevata pressione fiscale<br />

locale. Questa tendenza, che secondo alcuni autori trova origine nella tradizione secolare<br />

di forte autogoverno comunale, era già manifesta agli inizi degli anni ‘50.<br />

Essa si consolidò e si sviluppò quando, nel decennio successivo, la Toscana conobbe<br />

la sua fase di sviluppo più tumultuosa con gli effetti sociali e territoriali più evidenti (forti<br />

migrazioni interne dalla campagna verso i distretti e le città, sviluppo della “campagna

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