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Volume - Fondazione toscana sostenibile

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e degli investimenti (stimolato dalla bolla della new economy), attivando in tal modo le esportazioni<br />

europee, favorite da un cambio che si è regolarmente apprezzato, perlomeno fino al 2001.<br />

Successivamente, la crescita USA è stata trainata dal doppio deficit (commerciale e pubblico),<br />

ma in presenza di un dollaro indebolito rispetto all’euro (Tab. 1.2).<br />

Nonostante il traino americano, tuttavia, la dinamica europea è rimasta contenuta anche<br />

prima dell’inversione del ciclo del 2001, imbrigliata dal processo di costruzione dell’unione monetaria<br />

e dalla conseguente particolare attenzione al riassetto dei conti pubblici. Tutto ciò ha<br />

certamente influito sull’evoluzione della domanda interna, che è rimasta di basso profilo, mantenendo<br />

l’economia europea ancora fortemente export led.<br />

Proprio per questo motivo la dinamica espansiva del PIL è ulteriormente rallentata a partire<br />

dal 2001, quando la svalutazione del dollaro -di quasi il 40% in tre anni- ha inciso in modo<br />

considerevole sulla competitività dei prodotti europei, in un periodo di accentuazione della concorrenza<br />

a livello internazionale.<br />

L’allargamento del commercio mondiale -avvenuto in larga misura all’interno delle aree<br />

regionali- ha condotto dunque a una redistribuzione delle quote a vantaggio dei paesi di nuova<br />

industrializzazione dell’Asia, che in effetti hanno assorbito gran parte della crescita del commercio<br />

mondiale.<br />

In queste condizioni di forti modifiche del quadro di riferimento, la perdita di quote relative<br />

non può, tuttavia, essere intesa di per sé come indice di perdita di competitività rispetto all’equilibrio<br />

precedente, dal momento che i nuovi paesi, proprio perché emergenti, hanno spazi di<br />

espansione ben più ampi.<br />

Vale la pena richiamare, a questo proposito, come una stessa crescita percentuale delle esportazioni<br />

abbia effetti sulla crescita del PIL ben diversi a seconda del grado di apertura delle diverse<br />

economie; un grado di apertura che è andato regolarmente aumentando negli anni con la crescente<br />

internazionalizzazione dell’economia mondiale. In effetti, questo processo dura oramai da decenni e<br />

sta conducendo a una costante intensificazione degli scambi, la cui crescita è rimasta regolarmente<br />

superiore a quella del PIL. Queste tendenze possono generare effetti di segno opposto: da un lato,<br />

l’aumento del peso delle esportazioni sulla domanda finale rende via via più incisivo uno stesso aumento<br />

percentuale delle esportazioni sulla crescita del PIL; dall’altro, l’aumento delle importazioni<br />

riduce l’effetto espansivo di uno stesso ammontare di domanda finale (di esportazioni). È dalla combinazione<br />

delle due diverse dinamiche che si può cogliere l’effetto moltiplicativo che l’internazionalizzazione<br />

ha giocato sulle singole economie. Nel caso dell’Italia, ad esempio, negli anni settanta, per avere un<br />

aumento del PIL dell’1% era necessario un aumento delle esportazioni vicino al 5%; oggi basta un<br />

incremento inferiore al 3%.<br />

38<br />

Tabella 1.2<br />

TASSI ANNUI DI CRESCITA DEL PIL NEL PERIODO 1991-2004<br />

Fonte: OCSE, IFM<br />

Mondo 3,5 Stati Uniti 3,3<br />

7 Grandi paesi industrializzati 2,4 Giappone 0,9<br />

UEM 1,8 Africa non mediterranea 2,2<br />

Germania 1,2 America Latina 2,6<br />

Francia 1,8 Europa Centrale 3,0<br />

Regno Unito 2,7 Ex Unione Sovietica -1,6<br />

Spagna 2,7 Cina e Subcontinente indiano 8,1<br />

ITALIA 1,4 Paesi del Pacifico 4,8

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