Volume - Fondazione toscana sostenibile
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13. Vitalità della filiera e delocalizzazioni<br />
Per una piccola impresa che opera in un distretto, dunque, il problema del<br />
riposizionamento competitivo si pone attraverso il suo essere parte attiva di una filiera che<br />
evolve, e che investe e rischia quanto serve per superare gli ostacoli che si trova di fronte.<br />
Se la filiera in cui ci si trova non è vitale, bisogna con urgenza cercarsene un’altra e cominciare<br />
a guardarsi seriamente in giro in cerca di nuovi soci, nuovi luoghi, nuove alleanze.<br />
Dal punto di vista competitivo, si può giudicare vitale la propria filiera se in essa si<br />
enucleano alcune imprese (le più disponibili a fare da battistrada) che si proiettano verso il<br />
globale e verso l’immateriale, in una delle tante forme possibili. In questa ottica, si capisce<br />
che serve a poco erigere barriere difensive con l’intento di frenare, in base a qualche diga<br />
artificiale, la marea montante che viene dall’esterno. È vero che le regole del commercio<br />
vanno mantenute, reprimendo le frodi e le contraffazioni; ed è anche vero che ci possono<br />
essere legittime clausole di salvaguardia o ammortizzatori di vario genere per rendere gli<br />
adattamenti meno traumatici. Ma la questione di fondo è: non bisogna ostacolare i processi<br />
esplorativi, che, provenendo dall’interno, cercano nuove rotte nel grande oceano della<br />
globalizzazione. Le misure difensive non devono dunque essere pensate come sostitutive<br />
delle scelte esplorative e adattive da fare, ma semmai come la premessa per avere il<br />
tempo e le risorse necessarie all’esplorazione.<br />
È ovvio che questo adattamento suscita interessi divergenti e, dunque, implica una<br />
governance politica del processo.<br />
Per il territorio -e dunque anche per chi rimane- le delocalizzazioni non sono necessariamente<br />
un male, perché possono innescare processi virtuosi di apprendimento collettivo che<br />
hanno per protagonista la filiera nel suo complesso, anche se sono messi in movimento solo da<br />
alcune imprese (le più attive e reattive). Tuttavia, non bisogna nemmeno sottovalutare il potenziale<br />
dirompente che l’attrazione per i nuovi mercati e per i nuovi circuiti di approvvigionamento<br />
ha per gli equilibri e le coesioni una volta esistenti nel territorio di origine.<br />
Sulle delocalizzazioni, in altre parole, bisogna essere laici, pragmatici, guardando al<br />
concreto e non al significato ideologico generale della cosa. In molti casi, come abbiamo<br />
detto, le delocalizzazioni sono il primo passo di un processo di apprendimento e adattamento<br />
collettivo, che coinvolge la filiera. In altri casi, sono solo l’epilogo di un processo di<br />
distacco, avviato magari anni prima, e che trova sanzione nel fatto che l’impresa -ormai<br />
posizionata in altri mercati- ha perso interesse per il territorio di origine e tende a liberarsi<br />
degli impegni e dei vincoli che ancora la legano alla sua storia precedente.<br />
In questi casi, la delocalizzazione può risolversi semplicemente in un distacco: una perdita<br />
secca che non è la premessa di niente. È vero che, comunque, l’uscita di una “vecchia”<br />
impresa libera risorse (lavoratori, spazi, infrastrutture) a vantaggio, potenzialmente, di nuovi<br />
usi; ma non è detto che i processi in corso siano in grado di occuparle convenientemente.<br />
Dunque, se le delocalizzazioni non sono necessariamente un male, per il territorio di<br />
origine, non è nemmeno vero che esse -in quanto trionfo delle convenienze di mercatosiano<br />
necessariamente un bene. Dipende dal significato che hanno. Le delocalizzazioni<br />
utili anche al territorio sono quelle che ridistribuiscono le attività della filiera a scala internazionale<br />
riservando al territorio (locale) lavori e fasi ad alto contenuto di conoscenza e ad<br />
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