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Volume - Fondazione toscana sostenibile

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4. Sulla natura del “vantaggio competitivo” del distretto industriale<br />

Il distretto industriale è un microcosmo, il cui apparato produttivo è, da un lato in<br />

simbiosi con la comunità - o col complesso di comunità 10 - di riferimento, dall’altro profondamente<br />

inserito, coi prodotti che esporta, nel mercato mondiale.<br />

Il fenomeno distrettuale, già tipico dell’ottocento inglese, è risorto, in Italia, nell’ultimo<br />

dopoguerra, quando, dopo alcuni anni di espansione degli scambi internazionali e di crescita<br />

del PIL, il reddito medio delle famiglie di vasti strati di popolazione, ha superato, in<br />

molti paesi, fra cui l’Italia, il livello necessario a soddisfare i bisogni ritenuti convenzionalmente<br />

necessari. Da quel punto in avanti - grosso modo gli anni sessanta - si è venuta<br />

formando una domanda di beni differenziati e, al limite, personalizzati, almeno nei servizi<br />

collaterali, di dimensioni crescenti. È a soddisfare quel tipo di domanda e la domanda dei<br />

relativi beni strumentali, che si rivolgono principalmente le produzioni distrettuali.<br />

Quali sono le peculiarità di quel tipo di produzioni? Quando un processo produttivo si<br />

decompone in fasi che possono essere svolte da imprese diverse 11 , il problema del controllo<br />

della esecuzione di ogni fase si fa particolarmente acuto. L’esigenza della massima correttezza<br />

nell’esecuzione delle operazioni e nell’impiego dei materiali idonei, assume, soprattutto per i<br />

beni “di qualità”, che definiscono l’ “immagine sociale” di chi li consuma, un grande rilievo.<br />

Il problema del controllo si presenterebbe di difficile soluzione, persino nel caso di una<br />

produzione condotta, secondo procedure precise, ma non completamente automatizzate, in<br />

uno stabilimento verticalmente integrato. Perché il risultato sia adeguato alle esigenze che si<br />

vanno a soddisfare, occorrono agenti (sia lavoratori dipendenti che sub-fornitori esterni) che, al<br />

di là dei patti scritti, s’immedesimino, per dir così, nel “progetto di prodotto” dell’impresa.<br />

Sono noti i numerosi sistemi escogitati per incentivare la partecipazione del lavoratore<br />

-dal profit sharing, alla job rotation, al job enrichment, alle human relations- e del subfornitore<br />

(es. total quality), ma è pure noto che nessuno di essi risolve veramente il problema.<br />

E perché? Perché la “vecchia storia” della proprietà dei mezzi di produzione, o del<br />

potere finanziario, crea un’asimmetria fondamentale di informazione e di potere decisorio<br />

-che riemerge dalla melassa di dichiarazioni di buoni propositi- nei momenti di difficoltà<br />

dell’impresa. Quando le cose vanno male, ognuno difende i propri interessi immediati e<br />

riesplode il conflitto distributivo. La formula produttiva “impresa privata” rivela allora il contrasto<br />

immanente fra le sue esigenze di riproduzione e profittabilità e l’interesse della (o<br />

delle) comunità di cui fa parte e di cui profitta.<br />

Queste difficoltà si presentano accentuate nella produzione di beni differenziati e<br />

personalizzati, in cui interviene maggiormente l’impegno personale dell’uomo (lavoratore<br />

interno, o subfornitore esterno), che per quelli di serie, molto automatizzati, e ben controllabili<br />

anche nelle parti lasciate all’operatore umano. Da ciò la conclusione -per la verità, qui un<br />

po’ sommariamente esposta- che, mentre per le produzioni di serie il lavoratore è fonda-<br />

10 V. più avanti par.5.8.<br />

11 Per un analisi rigorosa del problema della scomponibilità del processo produttivo rinvio a Tani P. (2004)

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