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Facultatea de Istorie - Universitatea Alexandru Ioan Cuza

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POSTILLA A VIRGILIO AEN. 1, 630<br />

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dall’attributo e dal genitivo. Al di là <strong>de</strong>ll’osservare come Virgilio abbia<br />

potuto tradurre con mali il kakîn sofocleo e come altresì abbia potuto<br />

mutuare dal greco la me<strong>de</strong>sima conclusione <strong>de</strong>l verso con un verbo in prima<br />

persona, consi<strong>de</strong>riamo altri elementi: entrambi i versi sono affidati a<br />

personaggi femminili, sempre a <strong>de</strong>lle regine; inoltre, sia Euridice sia Didone<br />

concludono i loro discorsi proprio con la affermazione di essere donne<br />

consapevoli <strong>de</strong>l dolore (pur se diverso: rispettivamente la perdita di un figlio<br />

e l’abbandono <strong>de</strong>lla patria dopo l’uccisione di un marito); dunque, entrambi<br />

gli autori hanno voluto che i loro personaggi suggellassero il loro pensiero con<br />

una sententia non petita, volta a <strong>de</strong>lineare così la sensibilità di chi la<br />

pronunzia, conferendo uno statuto comunque di dignità e, se si vuole, nobiltà<br />

d’animo. Su un piano più attentamente stilistico possiamo rilevare come i due<br />

personaggi avvertano la necessità di dire e affermare la loro conoscenza e<br />

coscienza <strong>de</strong>l dolore, negando di esserne sprovvisti: Euridice dichiara ai<br />

cittadini tebani e al messaggero che ascolterà in quanto „non inesperta di<br />

mali” (il verso inizia con kakîn e termina con ¢koÚsomai: il personaggio<br />

cioè dichiara con disarmante sincerità che saprà sopportare l’ascolto di<br />

eventi infausti); Didone confida a Enea di „non imparare a recare aiuto agli<br />

infelici da inesperta <strong>de</strong>l dolore” (il verso inizia con il non e termina con il<br />

presente disco: è evi<strong>de</strong>nte che il personaggio sottolinea che non impara da<br />

inesperto, che soprattutto ha imparato a praticare la solidarietà consapevole <strong>de</strong>l<br />

male). Il confronto interessa soprattutto per registrare le sfumature acquisite<br />

dal riecheggiamento: se il procedimento litotico investe in Sofocle l’attributo, in<br />

Virgilio interessa il verbo principale che regge l’infinito; se nel tragediografo<br />

attico la sfumatura <strong>de</strong>lla esperienza <strong>de</strong>l dolore, occupando quasi oltre la<br />

prima metà <strong>de</strong>l verso, serve a sostenere la certezza propositiva <strong>de</strong>l futuro,<br />

nell’epico latino si punta solo sulla dichiarazione <strong>de</strong>ll’esercizio <strong>de</strong>lla<br />

solidarietà, esercizio praticato grazie ad una pregressa conoscenza <strong>de</strong>lla<br />

sofferenza. A costo di sembrare quasi oziosi, ci pare una ennesima conferma<br />

<strong>de</strong>lla validità e„j ¢eˆ �<strong>de</strong>lla nor<strong>de</strong>niana formulazione <strong>de</strong>lla ten<strong>de</strong>nza latina al<br />

passaggio dall’ethos al pathos: se in Sofocle il verso esprime una quasi<br />

fortezza d’animo individuale, tutta femminile, <strong>de</strong>putata a suggerire che la<br />

regina è una donna che ha già sofferto e che quindi può ascoltare altre,<br />

nuove disgrazie che magari la riguardino, in Virgilio il per così dire orizzonte<br />

concettuale <strong>de</strong>l verso si allarga e, forse, si arricchisce; Didone infatti,<br />

proponendosi come sovrana ospitale per gli stranieri, tiene a puntualizzare<br />

non tanto di essere un personaggio capace di ascoltare le sventure altrui benché

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