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Claudio Viazzi<br />

carichi ce lo abbiamo in tutti gli uffici, anche se in misura diversa) non devono<br />

finire per farci cadere dalla padella nella brace, passando cioè da Leibniz<br />

a Taylor. Il taylorismo è una visione, un metodo organizzativo<br />

dell’azienda da tempo abbandonato. Noi non vogliamo ritornarci praticando<br />

ora una sorta di taylorismo giudiziario: <strong>il</strong> giudice parcellizzato, <strong>il</strong> giudice che<br />

fa un certo quantitativo di lavoro, di prodotto in tempi predeterminati<br />

dall’esterno, senza sapere che cosa fanno gli altri, senza conoscere in che situazione<br />

organizzativa si colloca <strong>il</strong> suo lavoro e senza che nessuno controlli<br />

come arriva a quel quantitativo di prodotto che deve produrre. Una domanda<br />

che vorrei allora rivolgere proprio per <strong>il</strong> confronto più aperto e franco<br />

che dobbiamo avere su questo terreno è la seguente: se io prima facevo trecento<br />

sentenze all’anno ma erano troppe, in quanto per arrivare a quel numero<br />

le facevo frettolosamente e quindi male (<strong>il</strong> discorso che faceva Pepe<br />

prima sappiamo essere vero), e mi viene posto <strong>il</strong> tetto di 200 o 250 come carico<br />

massimo esigib<strong>il</strong>e, vorrei capire: le 50 o le 100 sentenze che non devo<br />

più fare, come le scegliamo? Le scelgo io discrezionalmente o qualcun altro<br />

secondo certi criteri? Ecco che allora introduciamo un’altra variab<strong>il</strong>e, che<br />

non è mica da poco e che concerne <strong>il</strong> tema delle priorità, degli obiettivi e dei<br />

programmi di smaltimento che da tempo si fanno in materia tabellare. Ecco<br />

che alla quantità si unisce <strong>il</strong> discorso qualità. Allora devo capire: se <strong>il</strong> carico<br />

complessivo della giurisdizione è troppo per le risorse e le forze che abbiamo,<br />

e non riusciamo a fare tutto, allora dobbiamo spiegare che cosa non<br />

facciamo più oppure facciamo in tempi più lunghi (che io chiamo “posteriorità”).<br />

Insomma affrontare a tutto campo <strong>il</strong> tema dei carichi significa, per me,<br />

innanzi tutto rifiutarne una versione tutta difensiva quale scudo contro eventuali<br />

rischi disciplinari in una tranqu<strong>il</strong>lizzante ottica burocraticoimpiegatizia.<br />

È, in altri termini, <strong>il</strong> modello di giudice burocrate che ci ricordava<br />

stamane Citterio quello che va bandito dalle prospettive che si intendono<br />

portare avanti con la riflessione sulle condizioni di lavoro e sui carichi<br />

esigib<strong>il</strong>i. Si tratterebbe infatti di una risposta assolutamente sbagliata a problemi<br />

effettivi ed ineludib<strong>il</strong>i dell’organizzazione.<br />

Credo che ci sia quindi un’enorme necessità di approfondire questi temi<br />

perché stanno al centro della questione organizzativa, ma ampiamente intesa,<br />

all’interno della quale ci sta anche <strong>il</strong> problema dei carichi, in un processo<br />

di responsab<strong>il</strong>izzazione generale che deve coinvolgere tutti, dal lavoro del<br />

singolo al lavoro degli uffici, ed a quello degli organi di governo autonomo<br />

periferici e centrale. Io credo che su questo l’associazionismo deve fare obbligatoriamente<br />

la sua parte che resta fondamentale. Continuo a credere del<br />

resto che l’Anm, pur con tutti i suoi limiti, resti l’unica casa comune che abbiamo<br />

noi magistrati in Italia e non condivido assolutamente la tesi di colo-<br />

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