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Pasquale D’Ascola<br />

Cassazione ogni anno e dalla conseguente necessità della Corte Suprema di<br />

far fronte almeno a questa sopravvenienza, per non incrementare <strong>il</strong> cospicuo<br />

arretrato. Ora, quanto al processo d’appello si ravvisa l’urgenza di provvedere<br />

a un qualche strumento deflativo e insieme purificatore, quale quello<br />

costituito dal procedimento camerale di cui all’art. 375 cpc, potenziato dalla<br />

riforma del giudizio di Cassazione del 2006. Si è qui individuato un doppio<br />

canale di esame delle liti: una valutazione preliminare dei ricorsi idonea a individuare<br />

motivi di inammissib<strong>il</strong>ità o a enuclearne la manifesta fondatezza o<br />

infondatezza, avviando in tal caso <strong>il</strong> ricorso a sollecita decisione, ovvero la<br />

pubblica udienza e la definizione con sentenza, che deve restare vincolata ai<br />

principi dettati dalle Sezioni unite, salvo investire queste ultime del caso, per<br />

invocare quel «mutamento consapevole e ragionato» che corregga gli errori<br />

che la stessa Corte Suprema, come avvertiva Carnelutti (Diritto e processo,<br />

Napoli, 1958, 244), «non può non commettere».<br />

A fronte dei ritardi intollerab<strong>il</strong>i che affliggono le Corti, un meccanismo<br />

analogo potrebbe essere importato o per via di fatto (non senza difficoltà),<br />

incaricando i singoli consiglieri di uno spoglio preliminare dei ricorsi e di<br />

formare conseguentemente i ruoli di udienza, raggruppando le impugnazioni<br />

da definire sollecitamente perché manifestamente fondate o manifestamente<br />

infondate o inammissib<strong>il</strong>i. Come avvenuto per la Corte Suprema, un<br />

intervento legislativo potrebbe poi istituire un meccanismo di interlocuzione<br />

e decisione sulla falsariga dell’art. 380 bis. La stessa configurazione dell’appello<br />

come revisio, già insita nell’art. 342 cpc e nella lettura che ne danno le Sezioni<br />

unite, potrebbe, secondo alcune voci, trovare ulteriore rafforzamento ed essere<br />

veicolo per <strong>il</strong> successivo controllo di legittimità. La collegialità nella fase<br />

istruttoria in appello costituisce sovente un intralcio al più celere svolgimento<br />

del processo e <strong>il</strong> superamento di essa in fase decisoria, almeno nelle cause<br />

più semplici o da definire mediante esame di questioni pregiudiziali, è avvertito<br />

come un’esigenza semplificatoria da soddisfare in tempi rapidi. Anche<br />

un f<strong>il</strong>tro di ammissib<strong>il</strong>ità, almeno per categorie di controversie delimitate dal<br />

legislatore, potrebbe, mutuando parzialmente formule straniere (<strong>il</strong> “leave to<br />

appeal”), giovare allo scopo.<br />

La situazione drammatica delle Corti d’Appello merita tutta la sollecitudine<br />

del legislatore, che incautamente sette anni or sono, incurante degli avvertimenti<br />

dottrinali (C. Consolo, Disciplina municipale della violazione del termine<br />

di ragionevole durata del processo: strategie e prof<strong>il</strong>i critici, in Corr. Giur., 2001, 569),<br />

ha varato una normativa - la c.d. legge Pinto - che non ha abbreviato i giudizi,<br />

non ha ristorato i ritardi irragionevoli e ha compromesso l’efficienza delle<br />

Corti territoriali. Una cura drastica potrebbe valutare la possib<strong>il</strong>ità di attribuire<br />

ad autorità amministrative l’applicazione dei compensi standardizzati<br />

che sono ormai riconosciuti alle parti che si siano fondatamente dolute dei<br />

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