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Pasquale D’Ascola<br />

mente si potrebbe far conto sull’aus<strong>il</strong>io di assistenti del giudice, figure che<br />

disegni di legge di varia fonte hanno prefigurato negli ultimi anni e di cui si è<br />

potuto meglio discutere nelle sessioni riservate all’organizzazione.<br />

Quanto alla trattazione ordinaria, la riflessione più fruttuosa nasce dalle<br />

suggestioni della riforma del giudizio di Cassazione, che all’art. 384 cpc impone<br />

alla Corte, se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una<br />

questione r<strong>il</strong>evata d’ufficio, di riservare la decisione e invitare le parti a dedurre<br />

sul punto con memoria scritta. Si tratta di una novità di notevole r<strong>il</strong>ievo,<br />

finalizzata alla scomparsa della c.d. sentenza della terza via, le cui ricadute<br />

dovrebbero aversi, in seguito anche alla coerente giurisprudenza di legittimità<br />

affermatasi nelle more (Cass. 21108/05; 16577/05 Corr. giur., 2006, 4,<br />

507, nota di C. Consolo e Giur. it., 2006, 7, 1456), nel giudizio di merito, inducendo<br />

un più attento uso del potere-dovere di indicare alle parti le questioni<br />

r<strong>il</strong>evab<strong>il</strong>i d’ufficio. È questo un fattore di potenziamento dell’efficacia<br />

della decisione, posto che si tratta di strumento fondamentale per la definizione<br />

del tema controverso e di regola di condotta che, se violata, costringe<br />

a retrocessioni e ripartenze nell’impostazione della lite o si manifesta come<br />

motivo di impugnazione. Nello stesso tempo si tratta di una delle manifestazioni<br />

più pregnanti della costituzionalizzazione del principio del contraddittorio<br />

di cui al novellato art. 111 Cost. Né va taciuto che solo per questa<br />

via si realizza pienamente quella «direzione attiva ed efficace del processo»<br />

(L.P. Comoglio, La durata ragionevole del processo…, in Riv. dir. proc., 2007, 598)<br />

che è funzionale tanto all’uguaglianza delle parti nel giudizio quanto alla sua<br />

celerità. Il processo orale, insegnava nel febbraio 1952 a Città del Messico<br />

Piero Calamandrei, si fonda sulla «collaborazione diretta tra <strong>il</strong> giudice e gli<br />

avvocati, sulla confidenza e naturalezza delle relazioni, sul dialogo semplificatore<br />

di chi nel chiedere e nel dare spiegazioni cerca di chiarire la verità. La<br />

tendenza del giudice italiano a rinchiudersi nel suo impenetrab<strong>il</strong>e s<strong>il</strong>enzio<br />

serve molte volte a mandare in lungo <strong>il</strong> processo: l’avvocato che parla dinanzi<br />

a un giudice che ostinatamente tace e che misura persino i propri gesti<br />

per non tradir ciò che pensa, è costretto a parlare alla cieca, col rischio di d<strong>il</strong>ungarsi<br />

a esporre argomentazioni di cui l’ascoltatore è già convinto, e di<br />

non rispondere a obiezioni che l’ascoltatore pone dentro di sé, ma si guarda<br />

bene dal tradurre in parole» (Opere giuridiche, primo volume, 662).<br />

Forte è la riflessione sul tema della motivazione della sentenza, sul quale<br />

in molte sedi (oltre agli Osservatori di M<strong>il</strong>ano, Firenze e Verona, si pensa alle<br />

ma<strong>il</strong>ing list di magistrati e giuristi, nuovo elemento di formazione e scambio)<br />

è stato stimolato <strong>il</strong> dibattito, anche per iniziativa delle articolazioni decentrate<br />

della IX Commissione del Csm. Anche qui è indispensab<strong>il</strong>e sia <strong>il</strong><br />

coinvolgimento della classe forense, sia l’attenzione del legislatore. La prima<br />

viene chiamata a riflettere sul possib<strong>il</strong>e raccordo tra atti difensivi e motiva-<br />

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