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Paál, László Paalen, Wolfgang Storia dell'arte Einaudi - Artleo.it

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uno e grigio-bruno, che si rischiarano a metà secolo divenendo<br />

rosati, giallini, grigi chiari, cost<strong>it</strong>u<strong>it</strong>i prevalentemente<br />

da bianco addizionato di pigmenti diversi a seconda<br />

della sfumatura desiderata; dall’Ottocento in poi le p<br />

tornano a essere bianche.<br />

La colorazione dell’imprim<strong>it</strong>ura poteva anche essere dettata<br />

dall’esigenza di creare particolari atmosfere, come nel<br />

Tintoretto dei notturni della Scuola di San Rocco, dove<br />

l’artista fa uso di un’imprim<strong>it</strong>ura uniforme a nero di carbone;<br />

altro esempio, l’imprim<strong>it</strong>ura luminosa a biacca<br />

smalto e lacca c<strong>it</strong>ata da De Mayerne in due diverse occasioni<br />

come fondo «très beau pour faire des paysages».<br />

Dopo una prima isolata descrizione di Eraclio (III, 24) su<br />

come preparare a biacca e olio di lino i supporti lignei,<br />

dalle fonti quattro-cinquecentesche si sa (Filarete, Vasari,<br />

ecc.) che la prassi fu di adeguare la tradizionale p per la<br />

tempera sovrapponendovi uno strato di pigmenti siccativi<br />

a olio, uno strato di imprim<strong>it</strong>ura cioè, dopo averne diminu<strong>it</strong>o<br />

il grado di assorbenza con piú mani di colla liquida.<br />

Ma breve fu la stagione della p<strong>it</strong>tura a olio su tavola: il legno,<br />

con tutti i suoi problemi – deformazioni, tarli, peso e<br />

relativa difficoltà di trasporto –, fu praticamente soppiantato<br />

dalla tela verso la fine del Cinquecento.<br />

Sulle superfici lapidee si è dipinto da sempre; innumerevoli<br />

gli esempi a noi giunti, ma scarse le notizie tecniche su<br />

come prepararle; l’indicazione piú antica ed estesa è in<br />

Eraclio (III, 25), che insegna come «imprimere» con biacca<br />

e olio di lino su colonne e lastre di pietra. Sarà poi Vasari<br />

a soffermarsi piú a lungo sulla p dei supporti in pietra:<br />

superfici «ruvide e aride come alcuni peperini» vanno<br />

prima trattate con una miscela di pece greca e resina,<br />

spianata a caldo, e poi ricoperte d’imprim<strong>it</strong>ura, mentre su<br />

marmi e porfidi e alabastri, e piú ancora sulle lastre di lavagna<br />

– che tanta fortuna ebbero nel corso del Cinquecento<br />

–, basta stendere l’imprim<strong>it</strong>ura, o addir<strong>it</strong>tura, se presentano<br />

una faccia «liscia e brun<strong>it</strong>a» , vi si può dipingere dirattamente.<br />

E cosí certamente veniva fatto almeno nel<br />

caso della pietra d’Arno o paesina, dei marmi mischi, del<br />

lapislazuli, dei quali colore e venature naturali erano utilizzati<br />

nelle composizioni per ottenere singolari suggestioni.<br />

Si è dipinto su oro, argento, stagno, rame, bronzo, ferro:<br />

o per ottenere effetti speciali – doratura, meccatura – o<br />

perché spesso si reputavano piú duraturi i metalli e quindi<br />

in grado di protrarre la v<strong>it</strong>a dell’opera. Tra i supporti me-<br />

<strong>Storia</strong> dell’arte <strong>Einaudi</strong>

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