30845 Suppl Giot.pdf - Giornale Italiano di Ortopedia e Traumatologia
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la tecnica dello “step-cut” ha notevolmente ampliato le superfici<br />
<strong>di</strong> contatto tra osso autologo e omologo rendendo molto più efficace<br />
il processo della “creeping substitution” che in alcuni casi ha<br />
condotto ad una totale integrazione ra<strong>di</strong>ografica tra osso donatore<br />
e ricevente.<br />
I fattori che hanno un ruolo nel processo <strong>di</strong> incorporazione dell’allograft<br />
sono <strong>di</strong> tipo meccanico e biologico. Il perfetto contatto tra<br />
le superfici osteotomiche e la stabilità della sintesi incrementano<br />
notevolmente la probabilità <strong>di</strong> ottenere una precoce e affidabile<br />
osteointegrazione con l’osso ricevente. Per questa ragione si è cercato<br />
<strong>di</strong> ottimizzare l’osteosintesi utilizzando per quanto possibile<br />
placche <strong>di</strong> titanio; una sintesi rigida e stabile ha consentito anche la<br />
precoce mobilizzazione dei raggi <strong>di</strong>gitali ricostruiti, incrementando<br />
i risultati in termini <strong>di</strong> arco <strong>di</strong> movimento. Dal punto <strong>di</strong> vista biologico<br />
esiste una relazione tra la risposta immunitaria del ricevente e<br />
la consolidazione dell’allograft 13 che, sebbene sia privo <strong>di</strong> cellule,<br />
conserva una relativa antigenicità a livello della matrice ossea. In<br />
caso <strong>di</strong> incompatibilità con l’ospite si possono verificare ritar<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />
consolidazione, pseudoartrosi e, in ultima analisi, il riassorbimento<br />
e il fallimento del trapianto.<br />
Uno dei vantaggi offerti dagli allograft rispetto ad altre meto<strong>di</strong>che<br />
ricostruttive quali protesi e innesti corticospongiosi autologhi consiste<br />
nel fatto che questi possono essere dotati <strong>di</strong> una articolazione<br />
completa <strong>di</strong> legamenti e capsula e <strong>di</strong> un apparato ten<strong>di</strong>neo estensore<br />
e/o flessore. La nostra casistica che conta 9 ricostruzioni articolari e<br />
8 ricostruzioni dell’apparato estensore su un totale <strong>di</strong> 11 casi <strong>di</strong>mostra<br />
che la componente articolare e ten<strong>di</strong>nea è risultata utile nella<br />
maggioranza dei pazienti.<br />
Nei casi <strong>di</strong> ricostruzione articolare <strong>di</strong> raggi <strong>di</strong>gitali isolati dove sia<br />
stato incentivato un programma <strong>di</strong> mobilizzazione precoce è stato<br />
ottenuto un ottimo recupero della motilità passiva che talvolta ha<br />
raggiunto il 100%. L’arco <strong>di</strong> movimento attivo ha invece presentato<br />
un deficit <strong>di</strong> estensione in 2 casi con ricostruzione omoplastica<br />
dell’apparato estensore. Come abbiamo ricordato, tale complicazione<br />
è probabilmente attribuibile in parte alla <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> eseguire<br />
una tenorrafia nella corretta tensione e in parte al parziale ce<strong>di</strong>mento<br />
della stessa nel corso della mobilizzazione postoperatoria.<br />
La complicanza <strong>di</strong> maggior rilievo è risultata essere la degenerazione<br />
articolare osservata in 2 casi a lungo termine. Il quadro ra<strong>di</strong>ografico,<br />
simile a quello tipico della Charcot Joint, è risultato sovrapponibile<br />
a quanto più volte osservato nel caso <strong>di</strong> macrotrapianti <strong>di</strong> articolazioni<br />
maggiori. Più che a possibili problemi <strong>di</strong> istocompatibilità<br />
tra donatore e ricevente, tali insuccessi dovrebbero essere attribuiti<br />
alla impossibilità <strong>di</strong> rivascolarizzare e preservare la cartilagine<br />
articolare dopo il processo <strong>di</strong> congelamento. Infatti mentre, come<br />
precedentemente descritto, l’osso corticale e spongioso decellularizzato<br />
possono essere interamente colonizzati dalle cellule e dai<br />
vasi del segmento ricevente raggiungendo una completa incorporazione,<br />
altrettanto non può avvenire a livello della cartilagine privata<br />
dei condrociti. Questo è il principale limite concettuale all’uso degli<br />
allograft, anche in piccoli segmenti non sottoposti a carico.<br />
CONCLuSIONI<br />
M. Innocenti, r. adani<br />
I dati analizzati in relazione al follow-up non consentono <strong>di</strong> trarre<br />
conclusioni definitive anche se la nostra esperienza suggerisce <strong>di</strong><br />
considerare questa meto<strong>di</strong>ca ricostruttiva, alternativa all’artrodesi,<br />
in quei casi in cui oltre al danno articolare ci sia una per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong><br />
sostanza metafisaria e/o capsuloligamentosa tale da controin<strong>di</strong>care<br />
l’uso <strong>di</strong> protesi.<br />
I maggiori interrogativi riguardano il destino della cartilagine<br />
articolare a lungo termine nei casi <strong>di</strong> ricostruzione osteoarticolare.<br />
A seguito della crioconservazione infatti i condrociti vengono<br />
<strong>di</strong>strutti, creando le premesse per futuri fenomeni degenerativi a<br />
carico della cartilagine che, associati all’attivazione <strong>di</strong> meccanismi<br />
immunitari, possono esitare in un quadro simile alla Charcot Joint<br />
e condurre al fallimento. È tuttavia preve<strong>di</strong>bile che nella maggioranza<br />
dei casi i danni cartilaginei da usura si limitino a coinvolgere<br />
soltanto porzioni circoscritte della superficie articolare, con<br />
possibile esposizione dell’osso subcondrale, senza però apprezzabili<br />
conseguenze funzionali in articolazioni non sottoposte a carico<br />
come quelle della mano.<br />
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