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del fascicolo - Cedam

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FORME DEL PROCEDIMENTO E FUNZIONE DELLA PROVA ECC. 419<br />

plina <strong>del</strong>le prove, e istituire una stretta relazione biunivoca tra immediatezza e<br />

libertà di valutazione, era innanzitutto un’operazione promozionale, e un esercizio<br />

di retorica persuasiva, dato che il « libero convincimento » era allora – come<br />

è rimasto fino ad oggi tra i processualcivilisti – uno di quei valori, o di quelle<br />

formule magiche, che nessuno è disposto a mettere in discussione. Ma l’operazione<br />

di Chiovenda era anche in qualche modo autolesionistica, giacché in<br />

definitiva riduceva il grande mo<strong>del</strong>lo processuale, per il quale egli aveva lungamente<br />

combattuto, a poco più che un accorgimento tecnico, funzionale alla<br />

valutazione <strong>del</strong>le prove costituende.<br />

3. – A sostegno <strong>del</strong>la sua tesi, come si sa, Chiovenda <strong>del</strong>ineava una sinteticissima<br />

storia <strong>del</strong> processo civile italiano, o più in generale europeo, non priva<br />

di qualche passaggio avventuroso. Così dicasi, ad esempio, <strong>del</strong>l’idea che il<br />

« formalismo » <strong>del</strong> processo romano-canonico e il c.d. sistema <strong>del</strong>la prova legale,<br />

caratteri ritenuti tipici <strong>del</strong> « processo scritto », fossero figli, nel contempo,<br />

<strong>del</strong>la filosofia scolastica e <strong>del</strong> giudizio ordalico dei Longobardi (anzi « Langobardi<br />

»), <strong>del</strong> quale tutto si sarebbe potuto dire, meno che fosse stato un processo<br />

« filosofico » e scritto.<br />

Ma quella che soprattutto pare oggi difficile da accettare, indipendentemente<br />

da questa sua incerta genealogia, è proprio l’immagine dalla quale sostanzialmente<br />

muovono anche le argomentazioni propriamente teoriche di<br />

Chiovenda: cioè quella <strong>del</strong> povero giudice <strong>del</strong> processo romano-canonico, privato<br />

di qualsiasi potere di valutazione critica <strong>del</strong> materiale probatorio, e ridotto<br />

alla funzione meramente contabile <strong>del</strong>l’applicazione di rigide e pittoresche « tariffe<br />

». Si tratta infatti di uno stereotipo certamente diffuso al tempo in cui<br />

Chiovenda scriveva (e per la verità sopravvissuto anche in seguito in molta letteratura<br />

processualcivilistica), che è stato però progressivamente screditato da<br />

tutta la migliore storiografia <strong>del</strong> diritto <strong>del</strong>le prove, e dall’attenta lettura <strong>del</strong>le<br />

fonti che essa ha sostituito a una prassi di citazioni tralatizie di seconda e di terza<br />

mano.<br />

Non è certamente questa la sede per un esame approfondito di questa suggestiva<br />

vicenda storico-culturale, che pure meriterebbe di essere prima o poi<br />

ricostruita in dettaglio: voglio dire l’invenzione retrospettiva, da parte di Voltaire<br />

e dei suoi molti epigoni, di un sistema probatorio tanto ridicolo quanto largamente<br />

immaginario, al fine di contrapporvi l’illuminata razionalità « moderna<br />

». Quale fosse, comunque, la ben diversa realtà, rimossa o manipolata<br />

sotto la faziosa etichetta <strong>del</strong> « sistema <strong>del</strong>la prova legale », lo si può già chiaramente<br />

desumere, per esempio, da libri come quello di Giorgia Alessi Palazzolo<br />

su Prova legale e pena, o quello di Isabella Rosoni sulla storia <strong>del</strong>la prova indiziaria<br />

(entrambi sostanzialmente sfuggiti all’attenzione dei processualisti), e ora<br />

dai due ricchi affascinanti volumi dedicati da Susanne Lepsius alla minuziosa<br />

analisi testuale e teorica, nonché all’edizione critica, <strong>del</strong> Tractatus testimoniorum<br />

di Bartolo da Sassoferrato.<br />

Del resto, l’immagine <strong>del</strong> giudice medioevale burattino, che usa il pallot-

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