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del fascicolo - Cedam

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420<br />

RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE<br />

toliere invece <strong>del</strong> cervello, è in realtà obsoleta da tempo anche in ambiti culturali<br />

diversi da quello <strong>del</strong>la storiografia giuridica specialistica: lo attestano, per<br />

esempio, gli scritti di Mirjan Damaška (non solo la nota monografia sul « diritto<br />

<strong>del</strong>le prove alla deriva », ma anche molti altri suoi saggi); oppure, senza andare<br />

lontano, lo si ricava da tutta la letteratura sulle prove dei nostri cugini processualpenalisti,<br />

più abituati di noi a scandagliare nel passato e nel presente i molti<br />

significati e le molte implicazioni anche nefaste <strong>del</strong>la « formula magica » <strong>del</strong><br />

libero convincimento (penso naturalmente alla ormai classica opera di Massimo<br />

Nobili, ma anche ad un precedente saggio di Ennio Amodio su « libertà e legalità<br />

<strong>del</strong>la prova », e ad innumerevoli scritti, pur variamente orientati, di autori<br />

come Franco Cordero, Paolo Ferrua, Giulio Ubertis, Oreste Dominioni e altri);<br />

più attenti di noi al valore garantistico dei limiti imposti dalla legge alla discrezionalità<br />

<strong>del</strong> giudice <strong>del</strong> fatto, sia nell’ammissione che nella valutazione <strong>del</strong>le<br />

prove (sul punto si dovrebbero citare Giovanni Conso e Luigi Ferrajoli, e poi<br />

nuovamente in blocco l’intera dottrina contemporanea <strong>del</strong> processo penale); e,<br />

last but not least, più consapevoli di noi <strong>del</strong>la posizione centrale che in ogni<br />

tempo e dovunque ha sempre rivestito per la formazione <strong>del</strong> giudizio di fatto la<br />

prova indiziaria e presuntiva, di per sé refrattaria a qualunque computo aritmetico.<br />

Chiedo scusa per questo excursus, solo apparentemente fuori tema. Ma<br />

vorrei ancora permettermi di dare un consiglio ai numerosi nostri giovani che si<br />

sono dedicati in questi anni o intendono dedicarsi allo studio <strong>del</strong>le prove. Se<br />

avessimo la pazienza di leggere per davvero qualche testo « medioevale » su<br />

questi argomenti, come i capitoli pertinenti <strong>del</strong>lo Speculum di Guglielmo Durante,<br />

compreso quello suddiviso nei 96 paragrafi scherniti da Chiovenda e<br />

Cappelletti, o il già citato sorprendente studio monografico di Bartolo sulla testimonianza,<br />

o qualche brano dei trattati sulle prove di Farinaccio, di Menochio<br />

o di Mascardo (è un po’ faticoso, ma merita la deviazione, come dicono le guide<br />

Michelin), vi scopriremmo, non già tariffe e pallottolieri, ma giacimenti ricchissimi<br />

di una sapienza analitica e casistica, protesa alla razionalizzazione <strong>del</strong><br />

giudizio di fatto, e capace di insegnarci molte cose, proprio su quell’« arte di<br />

ben congetturare » (come la si chiamava un tempo) alla quale non hanno certo<br />

contribuito altrettanto né le freddure di Voltaire, né la glorificazione rivoluzionaria<br />

<strong>del</strong>l’intime conviction, e che oggi si cerca di ricostruire – ma soltanto in<br />

termini astratti, come dirò – con l’analisi logica ed epistemologica <strong>del</strong> « ragionamento<br />

probatorio ».<br />

4. – Chiovenda non aveva insomma ragione di temere che la perpetuazione,<br />

nel nostro ordinamento, <strong>del</strong> « processo scritto », determinasse il ritorno<br />

all’« aritmetica <strong>del</strong>le prove » <strong>del</strong> processo romano-canonico: dato che questa<br />

sostanzialmente non era mai esistita. Senza dire che quell’ ipotetico « ritorno »,<br />

ove mai fosse stato concepibile, avrebbe allora dovuto essersi già compiutamente<br />

realizzato all’epoca in cui egli scriveva, dato che l’aborrito « processo<br />

scritto » di cui parlava era in vigore ormai da quasi sessant’anni.

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