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del fascicolo - Cedam

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428<br />

RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE<br />

Ciò che però può essere disciplinato da regole analitiche e vincolanti sono<br />

proprio le « forme <strong>del</strong> procedimento », cioè la raccolta <strong>del</strong>le informazioni utilizzabili<br />

per il giudizio, le modalità <strong>del</strong>la decisione, e prima ancora la costituzione<br />

<strong>del</strong> giudice. E qui è <strong>del</strong> tutto lecito e ragionevole chiedersi quali siano, in<br />

ogni determinato contesto storico, culturale e istituzionale, le « forme » più idonee<br />

a creare le condizioni migliori per un giudizio « razionale »; o, per usare<br />

parole meno impegnative ed evitare un circolo vizioso, un giudizio che possa<br />

essere compreso e possibilmente condiviso dalla collettività che deve assumerne<br />

idealmente la paternità e dalle parti che devono subirne gli effetti.<br />

Il fatto che il trend dottrinale in questione non dedichi adeguata attenzione<br />

a questi temi deriva, a mio avviso, proprio dalle premesse teoriche generali di<br />

cui poco fa parlavo, e in particolare dalla diffusa propensione a negare o sottovalutare<br />

la specificità <strong>del</strong>la prova giuridica, o meglio giudiziaria. Parafrasando<br />

Corrado Vocino, vorrei dire che in questo caso la colpa non è tanto di Voltaire,<br />

quanto di Jeremy Bentham e <strong>del</strong>la sua battaglia contro le « regole di esclusione<br />

» che così tanto e così immeritatamente (ma questa è un’opinione strettamente<br />

personale, avversata dall’amico Sergio Chiarloni) ha influenzato la dottrina<br />

successiva, ed anzi, fino ad epoca recente, più quella continentale che<br />

quella di common law.<br />

Sedotti dalla retorica benthamiana, infatti, i suoi seguaci sembrano ritenere<br />

che l’unico ostacolo sulla via <strong>del</strong>la desiderata assimilazione <strong>del</strong>la cognizione<br />

<strong>del</strong> giudice a quella <strong>del</strong>lo storico, <strong>del</strong>lo scienziato, o <strong>del</strong> buon padre di famiglia,<br />

sia costituito appunto dalle regole di esclusione, oltre che naturalmente da<br />

quelle di prova legale in senso stretto. Ma si tratta di una illusione ottica, perché<br />

la vera e insopprimibile « specificità » <strong>del</strong>la prova giudiziaria consiste molto<br />

più semplicemente nel fatto che le operazioni conoscitive <strong>del</strong> giudice si collocano<br />

comunque e per definizione entro la struttura di un processo, e dunque in<br />

un contesto necessariamente diverso da quello in cui si collocano le corrispondenti<br />

operazioni mentali <strong>del</strong> nostro paterfamilias, per quanto queste possano<br />

apparire in sé e per sé simili, o anche identiche, in sede di analisi logica ed epistemologica.<br />

Per far sì che la prova giudiziaria sia sottoposta solo alle regole extranormative<br />

che presiedono a qualunque razionale giudizio di fatto, non basterebbe<br />

dunque eliminare ogni forma di « legalità <strong>del</strong>la prova », né adottare la « procedura<br />

naturale » di Bentham che tanto affascinava anche Chiovenda: bisognerebbe<br />

abolire <strong>del</strong> tutto il processo.<br />

In altre parole, per ritornare alle metafore già ricordate, sarà anche vero<br />

che il rumore, le macchie <strong>del</strong> leopardo e le parti visibili <strong>del</strong> gatto <strong>del</strong> Cheshire<br />

sono accidenti, o fenomeni intermittenti, rispetto a uno sfondo più vasto ed<br />

aperto. Ma l’accertamento <strong>del</strong> fatto nel processo, quali che ne siano gli strumenti,<br />

si svolge comunque all’interno di una struttura che rimane chiusa, specifica<br />

ed artificiale, cioè più semplicemente giuridica, e che già di per sè condiziona<br />

pesantemente l’attività cognitiva <strong>del</strong> giudice, anche per gli aspetti non regolati<br />

dal diritto <strong>del</strong>le prove. Come lapidariamente diceva Francesco Carrara, il

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