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del fascicolo - Cedam

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424<br />

RIVISTA DI DIRITTO PROCESSUALE<br />

mente apprezzate dal giudice <strong>del</strong> fatto, come quelle regolarmente formate nel<br />

processo ad quem. Anzi, il travestimento produce talvolta addirittura una sorta<br />

di purificazione, o di sublimazione, <strong>del</strong>la fonte di prova: come quando la testimonianza<br />

di un terzo « interessato » viene ritenuta inammissibile ex art. 246<br />

c.p.c., e quindi impedita, nella sede e nelle forme tipiche, e però si consente al<br />

giudice di valutare liberamente le dichiarazioni di quel medesimo testimone,<br />

raccolte altrove (anche al di fuori <strong>del</strong> contraddittorio tra le parti attuali) e prodotte<br />

nel nuovo processo in forma documentale.<br />

In questo quadro, un discorso in parte diverso potrebbe farsi solo con riguardo<br />

ai caratteri e alla funzione dovunque assunti nei processi odierni dalla<br />

prova c.d. scientifica.<br />

Qui, anche quando la prova viene disposta nel contesto <strong>del</strong> giudizio di merito,<br />

nella forma <strong>del</strong>la expert testimony ovvero mediante un incarico conferito dal<br />

giudice al consulente, ci si trova comunque di fronte – per usare un termine di<br />

moda tra gli imprenditori e i managers – ad un outsourcing <strong>del</strong>l’istruzione probatoria,<br />

o di una sua parte molto cospicua: il perito, o il consulente, o comunque<br />

l’esperto, esamina luoghi e cose che il giudice non ha mai visto e mai vedrà; raccoglie<br />

informazioni da persone che non hanno lo status processuale di testimoni;<br />

acquisisce dalle parti e dai terzi documentazione diversa e ulteriore rispetto a<br />

quella formalmente prodotta o esibita in giudizio. Dopo di che il giudice rimarrà<br />

sì, sulla carta, peritus peritorum, ma in concreto potrà accadergli, come è stato già<br />

spesso rilevato, di recepire l’elaborato <strong>del</strong>l’esperto non diversamente da come<br />

veniva recepito il responso divino nell’ordalia longobarda in cui Chiovenda vedeva<br />

l’origine di tutte le nostre sventure. È improbabile che Chiovenda pensasse<br />

anche e proprio a questo: ma si può riconoscere che il suo teorema, secondo il<br />

quale il giudice lontano dalle fonti di prova è costretto a valutarle secondo criteri<br />

formali, troverebbe (solo) per questo aspetto una inaspettata conferma.<br />

Prescindendo, comunque, da quest’ultima sorprendente convergenza di effetti<br />

tra il mezzo istruttorio che meglio rappresenta l’ingresso, nel processo moderno,<br />

dei criteri <strong>del</strong>la razionalità scientifica, e la più tipica <strong>del</strong>le prove c.d. « irrazionali<br />

» (convergenza che giustamente ha già indotto molti a riflettere sui<br />

pericoli di un incremento <strong>del</strong>l’uso di metodi scientifici nel processo, sotto la<br />

bandiera positivistica <strong>del</strong> progresso <strong>del</strong>le conoscenze umane), si può tenere<br />

ferma, in termini generali, la constatazione che l’insuccesso <strong>del</strong> principio chiovendiano<br />

<strong>del</strong>la « immediatezza » non ha di per sé limitato l’àmbito <strong>del</strong>la libertà<br />

giudiziale nella valutazione <strong>del</strong>le prove.<br />

7. – Ma che cosa dovremo allora desumerne? Apparentemente, le risposte<br />

possibili sembrerebbero due.<br />

La prima è quella che forse avrebbe dato Chiovenda: il principio <strong>del</strong> libero<br />

convincimento non è proprio « morto », ma si è « corrotto », e si corromperà<br />

ancora di più, se è vero che il nostro e tutti i principali ordinamenti processuali<br />

civili, in nome <strong>del</strong>l’economia processuale o <strong>del</strong>la deflazione <strong>del</strong> contenzioso,<br />

stanno distruggendo, o rinunciando a creare, le condizioni migliori per una cor-

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