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L'India e gli altri Nuovi equilibri della geopolitica - Ispi

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L’India e <strong>gli</strong> <strong>altri</strong><br />

proprio posto nella vita sia determinato dalle proprie azioni in una vita precedente 62 .<br />

“Da qui l’apparente indifferenza per le tragedie dei singoli… e l’attenzione posta al<br />

dopo, alla ricostruzione, alla vita che continua comunque, come il karma di cui ciascuno<br />

dispone”. In questo modo la dottrina <strong>della</strong> reincarnazione rende più facile tollerare<br />

la sordidezza che si ha intorno, anzi puntella moralmente la povertà. Ne deriva<br />

“l’accettazione del proprio stato e la coscienza che esso derivi da un ordine immanente,<br />

cui sarebbe vano opporsi poiché la sua ragione sta in un <strong>equilibri</strong>o cosmico<br />

che trascende l’individuo” (Armellini, 2008: 4 e 103). Quest’accettazione permea la<br />

società tutta e non solo quella indù.<br />

L’opposizione tra “puro” e “impuro” mo<strong>della</strong> così una gerarchia sociale formata da<br />

quattro grandi categorie o varna, nel seguente ordine: (i) il gruppo più puro, i brahmin<br />

(sacerdoti, dotti) i soli cui era permesso leggere e scrivere; (ii) i kshatryia (guerrieri,<br />

amministratori, detentori del potere politico); (iii) i vaishya (mercanti, agricoltori, uomini<br />

comuni) ai quali il dharma assegnava il compito di sopperire ai bisogni materiali<br />

<strong>della</strong> società; e i shudra (servitori, braccianti e artigiani). Quelli che non appartengono<br />

a nessuna classe e svolgono lavori impuri, come la macellazione de<strong>gli</strong> animali e<br />

la lavorazione delle pelli sono considerati contaminati e contaminanti, sono i fuori casta<br />

o <strong>gli</strong> intoccabili, oggi chiamati dalit che a loro volta hanno formato centinaia di sottoclassi,<br />

come hanno fatto le quattro varna con i jati.<br />

La rigidità del sistema castale deriva dal fatto che lo status d’ognuno è predeterminato<br />

e immutabile, una condizione che si materializza alla nascita e che nessun<br />

evento, o talento, o ricchezza possa cambiare. Non c’è scelta, perfino la punizione<br />

dello stesso crimine varia a secondo <strong>della</strong> casta di appartenenza. Inoltre, l’assenza di<br />

ribellione a tale sistema 63 , specialmente da parte delle caste basse, potrebbe dipendere<br />

sia dall’interiorizzazione delle credenze e dei valori brahmani sia dall’analfabetismo<br />

(si stima che almeno un terzo de<strong>gli</strong> appartenenti a tali caste lo sia), divisi e<br />

poveri e quindi finora incapaci di elaborare una contro-ideologia. Per questo la maggior<br />

parte dei dalit, salvo le frange estreme del loro movimento che manifestano<br />

un’esplicita volontà di opposizione, resta subalterna 64 .<br />

62 Comune all’induismo come al buddhismo, la parola karma si riferisce a un principio teologico<br />

secondo il quale le azioni compiute in questa vita verranno premiate o punite nelle<br />

vite successive fino alla completa purificazione e all’annientamento nel tutto o nel nulla. Per<br />

questo la propria condizione è frutto delle azioni compiute nelle vite precedenti. Oltre a questo<br />

significato, karma è una parola di uso comune che significa “azione” in quanto principio<br />

causale di una successione di effetti che coinvolgono sempre anche l’autore dell’azione, ovvero<br />

“un individuo agendo modifica l’ambiente, ma la trasformazione dell’ambiente, che e<strong>gli</strong><br />

stesso ha determinato, influirà su lui” (Bartoli, 2008: 261-62 e nota 61);<br />

63 <strong>Ispi</strong>randosi alle “Black Panthers” di Malcom X, un gruppo di dalit creò il “Dalit Panther<br />

Movement” che ha concluso ben poco, ma esiste ancora.<br />

64 Nell’interessantissimo saggio di Cecilia Bartoli (2008: 219) subalterno è “l’individuo<br />

che accetta la doxa e che accetta di rappresentarsi come intoccabile, poiché questi non è<br />

autore <strong>della</strong> rappresentazione che ha di sé e l’identità che <strong>gli</strong> è stata conferita,<br />

nell’universo di consenso che e<strong>gli</strong> abita, risulta priva di autorevolezza e soggetta a molti<br />

svantaggi”. Se la doxa é “la mentalità corrente, il terreno di credenze comune pure alle<br />

parti avverse … una costellazione di rappresentazioni sociali largamente condivisa che<br />

s’impone come senso comune”, s’impone perché “le rappresentazioni sociali che costituiscono<br />

la doxa scaturiscono da una visione del mondo di chi domina e tendono a nutrirne <strong>gli</strong><br />

interessi”, la violenza epistemica è “l’interiorizzazione da parte dell’oppresso delle categorie<br />

che ne ratificano l’inferiorità, eleborate a uso dei dominanti”, ovvero l’interiorizzazione <strong>della</strong><br />

doxa del gruppo dominante. Di conseguenza, “a una data visione <strong>della</strong> realtà, che prevede<br />

un certo ordine dei rapporti sociali, possono aderire anche coloro che in quell’ordine occupano<br />

le posizioni più svantaggiate”, per cui “la violenza epistemologica si esercita con il

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