L'India e gli altri Nuovi equilibri della geopolitica - Ispi
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L’India e <strong>gli</strong> <strong>altri</strong><br />
ralizzazione delle importazioni fu diretta principalmente a soddisfare la domanda<br />
delle classi medio-alte, ma poiché non furono varate contemporaneamente efficaci<br />
misure per incrementare anche le esportazioni, alimentò il disavanzo <strong>della</strong> bilancia<br />
dei pagamenti, per il cui finanziamento si dovette ricorre ai prestiti del FMI.<br />
L’economia indiana si trovò così esposta alla speculazione monetaria e non risve<strong>gli</strong>ò<br />
l’interesse de<strong>gli</strong> investitori internazionali. Inoltre, il sostegno pubblico al settore industriale<br />
non fu accompagnato dalla richiesta ai ceti produttivi di partecipare alla<br />
mobilitazione delle risorse tramite una tassazione diretta.<br />
Per questo, nel settore industriale, come in quello agricolo, cominciò a venir meno<br />
l’opposizione all’apertura al processo di globalizzazione che appariva sempre più<br />
compatibile con <strong>gli</strong> interessi dei ceti dominanti, e particolarmente dei nuovi gruppi<br />
emergenti. Chiaramente l’India non era più quell’“ultimo baluardo contro la globalizzazione”<br />
di cui scriveva Terzani nel 1977. Anzi, contrariamente a quanto avvenuto<br />
all’Occidente, essa dovette “sottostare a<strong>gli</strong> obblighi di una democrazia nel momento<br />
stesso in cui cerca[va] di attuare una trasformazione capitalistica” (Menon e<br />
Nigam, 2009: 70).<br />
La sopraggiunta crisi petrolifera del 1990 e poi la grave crisi finanziaria dell’estate<br />
1991, che quasi azzerò le riserve indiane di valuta pregiata, spinsero il paese nelle<br />
braccia del FMI e <strong>della</strong> BM, le cui “prescrizioni politiche neoliberiste” diventarono la<br />
politica economica del governo, così come è accaduto in gran parte del mondo. Tale<br />
politica incontrava anche consenso, perché “le contraddizioni del regime dirigista nehruviano<br />
… avevano contribuito all’erosione <strong>della</strong> stabilità sociale e vitalità economica”<br />
dell’India e avevano rinsaldato l’alleanza storica tra potenti ceti agrari, industriali<br />
ed emergenti (Adduci, 2009: 37-38 e 48-49) che convennero che essa limitava <strong>gli</strong> interventi<br />
diretti ad affrontare il problema <strong>della</strong> povertà, problema che in realtà si pensava<br />
di poter risolvere rispolverando la vecchia tesi dello sgocciolamento (“trikle-down<br />
effect”), cioè delle automatiche ricadute positive <strong>della</strong> crescita.<br />
Le riforme si articolarono in un primo intervento di stabilizzazione – essenzialmente<br />
misure deflazionistiche per limitare la domanda interna e quindi le importazioni<br />
e la domanda di credito –, che fu preliminare alla successiva fase di aggiustamento<br />
strutturale (Adduci, 2009: 51) che prevedeva misure dirette a facilitare <strong>gli</strong> investimenti<br />
privati in questo settore, garantendo un maggiore spazio di manovra al<br />
capitale nazionale, ma anche liberalizzando la sfera de<strong>gli</strong> investimenti esteri e le importazioni<br />
di beni capitali, beni intermedi e materie prime. Fu anche prevista la privatizzazione<br />
di gran parte delle imprese pubbliche, ma in realtà le resistenze furono<br />
tante che poco è stato fatto in questo campo. Le aree inizialmente comprese nella<br />
riforma furono l’industria pesante, quella automobilistica e quella farmaceutica.<br />
Dopo essere cresciuto al ritmo annuale medio dell’11% in termini reali nel periodo<br />
1993-97, nei seguenti tre anni il tasso di crescita del settore manifatturiero scese<br />
al 2,8% poiché <strong>gli</strong> investimenti industriali declinavano mentre le imprese si ristrutturavano<br />
per affrontare l’accresciuta concorrenza internazionale (Prasenjit Basu,<br />
2005: 52). Alcune imprese non furono capaci di mantenere le proprie quote di mercato,<br />
ma la maggior parte di esse riuscì a farcela. Per ampliare la capacità produttiva<br />
e acquisire nuove tecnologie, nel 1992-95 si manifestò un sostenuto aumento de<strong>gli</strong><br />
investimenti di cui ci si pentì ne<strong>gli</strong> anni successivi quando la contrazione asiatica e<br />
globale, specialmente nel settore dell’acciaio e <strong>della</strong> petrochimica, colpì proprio le<br />
imprese che avevano guidato la corsa a<strong>gli</strong> investimenti, imponendo loro dolorose<br />
ristrutturazioni (1997-2001). La ripresa si materializzò nel 2003 guidata da<strong>gli</strong> investimenti,<br />
specialmente dei settori manifatturieri a base tecnologica, come automobili,