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L'India e gli altri Nuovi equilibri della geopolitica - Ispi

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L’India e <strong>gli</strong> <strong>altri</strong><br />

dalla teoria dello sviluppo allora imperante. Per questo, ne<strong>gli</strong> anni ’50 il modello indiano<br />

divenne fonte d’ispirazione per molti PVS.<br />

Obiettivo cardine del modello di sviluppo basato sulla strategia <strong>della</strong> sostituzione<br />

delle importazioni creato da Nehru ne<strong>gli</strong> anni ’50 era il principio dell’autosufficienza<br />

(swadeshi) e quattro erano le sue caratteristiche principali: programmazione<br />

centralizzata che favorisse l’industria, largo settore pubblico, solide barriere<br />

doganali e sistema di autorizzazioni amministrative (il “licence Raj”, ossia le complesse<br />

pratiche burocratiche che prima del 1991 erano necessarie per aprire<br />

un’attività, fare un investimento, importare dei beni) per regolare l’aumento e la diversificazione<br />

<strong>della</strong> capacità di produzione delle imprese private. Il ridotto ruolo attribuito<br />

a<strong>gli</strong> scambi internazionali permise la formazione di una base economica al<br />

riparo dalla concorrenza internazionale, ma impedì alle imprese, scarsamente competitive,<br />

di ottenere economie di scala. Di conseguenza la percentuale delle esportazioni<br />

indiane nel commercio mondiale si ridusse dall’1,9% nel 1950 allo 0,6% nel<br />

1973 (ne<strong>gli</strong> stessi anni le esportazioni più le importazioni di beni passarono da 2,6%<br />

a 2% del PIL). Tuttavia, l’India non poteva permettersi di non importare certi beni, a<br />

cominciare dal petrolio, e quindi aveva bisogno di vendere all’estero. Ma proprio la<br />

strategia <strong>della</strong> sostituzione delle importazioni, proteggendo l’industria domestica<br />

con alte barriere tariffarie e non tariffarie – il che in questo caso significò bandire<br />

praticamente tutti i beni di consumo –, in effetti, sopravvalutava il cambio e di conseguenza<br />

penalizzava severamente le esportazioni. Il risultato fu la crisi <strong>della</strong> bilancia<br />

dei pagamenti nel 1957-58, ma nonostante questo il tasso di crescita indiano superò<br />

il 4% nel periodo 1958-59/1962-63 (Panagaiya, 2008: 5, Tab. 1.1), leggermente<br />

più alto di quello medio globale dello stesso periodo.<br />

Secondo Rothermund (2007: 95), le fondamenta di questa politica interventista<br />

erano state gettate dall’economia di guerra e ancor prima, nel periodo tra le due<br />

guerre, dal sistema di preferenze imperiali gradualmente introdotto dai britannici.<br />

Tuttavia, la scelta di procedere costruendo un’economia pianificata era resa necessaria<br />

dall’esigenza di ristabilire il controllo nazionale su un sistema asservito ai bisogni<br />

dell’autorità coloniale. L’approccio era condiviso da<strong>gli</strong> stessi industriali, un<br />

gruppo dei quali nel 1944 aveva elaborato il Piano di Bombay per lo sviluppo del<br />

paese che assegnava allo stato un ruolo fondamentale per ridurre le inegua<strong>gli</strong>anze<br />

dei redditi. Inoltre, per Torri (2009: 245), alla base <strong>della</strong> scelta <strong>della</strong> politica di pianificazione<br />

indicativa, che si discostava in maniera netta da quella liberista del periodo<br />

coloniale, vi era sia il terribile impatto negativo che la crisi del 1929 aveva avuto<br />

sull’India, sia l’esempio <strong>della</strong> politica economica adottata da<strong>gli</strong> USA durante la<br />

guerra. In effetti, con la politica liberista imposta da Londra durante la prima metà<br />

del XX secolo l’economia indiana era cresciuta a un magro tasso medio dell’1,25%<br />

l’anno, per cui i tassi delle prime decadi dopo l’indipendenza furono tutt’altro che<br />

disprezzabili, come si vede nella Tabella 1.2, dalla quale si nota anche che, come<br />

sostiene Nayyar (2006), il secondo salto qualitativo – il primo era avvenuto con<br />

l’indipendenza –avvenne ne<strong>gli</strong> anni ’80. Anche l’OECD (2007: 3) sembra corroborare<br />

questa tesi quando nota che l’abbandono del modello dirigista per quello di<br />

un’economia di mercato “iniziò a metà de<strong>gli</strong> anni ’80 e accelerò nei primi anni <strong>della</strong>

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