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L'India e gli altri Nuovi equilibri della geopolitica - Ispi

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Introduzione<br />

Le caste non sono semplici suddivisioni, ma costituiscono delle “comunità con mitologie<br />

proprie, una propria identità e spesso un proprio apparato di regole interne”,<br />

incluse “le modalità di relazione con le altre caste” (Bartoli, 2008: 84-85). L’ambito di appartenenza<br />

è inoltre definito nelle numerose (sono più di quattromila) suddivisioni dei varna,<br />

cioè i gruppi più ristretti e locali chiamati jati (letteralmente nascita), all’interno dei quali<br />

si nasce, ci si presta assistenza e ci si sposa. A loro volta i jati sono suddivisi in gotra,<br />

cioè fami<strong>gli</strong>e discendenti da un comune antenato. Questo mosaico sociale di caste e sotto-caste<br />

si è sviluppato nel tempo, ma <strong>gli</strong> intoccabili sono restati sempre in fondo alla lista,<br />

anzi, in effetti, fuori <strong>della</strong> lista. Il sistema sostanzialmente protegge alcuni gruppi a discapito<br />

di <strong>altri</strong>, ma essendo considerato un comandamento divino, qualsiasi infrazione, individuale<br />

o collettiva, equivale a un peccato nei confronti del Creatore, un peccato che va a<br />

incidere sul kàrma (l’insieme delle azioni passate di ognuno). La discriminazione dei dalit<br />

creata dal sistema castale ha prodotto la loro subalternità, ma il sistema ha finito con<br />

l’essere accettato da<strong>gli</strong> stessi paria. L’accettazione fu facilitata dall’introduzione di un esteso<br />

sistema di “gradi d’inferiorità”, in modo che ognuno avesse la possibilità di avere<br />

qualcuno con un grado immediatamente inferiore, a compenso dell’umiliazione di avere<br />

sempre qualcuno al di sopra. Il moltiplicarsi dei “gradi d’inferiorità” ha contribuito non poco<br />

a rendere “tollerabile” l’intero sistema.<br />

La spiegazione convenzionale considera le caste “la forma base <strong>della</strong> società indiana,<br />

presente da sempre nel passato dell’India”, per cui l’uomo indiano sarebbe<br />

“privo di un pensiero razionale, fatalista del tutto sottomesso all’autorità (l’idea del<br />

dispotismo orientale diffusa da Hegel), incapace di essere motore di una propria azione<br />

consapevolmente voluta, essenzialmente gregario e perfettamente agito<br />

dall’ethos comunitario”. Una spiegazione che presentando l’India come il rovescio<br />

dell’Europa “forniva un’ottima giustificazione a quella fase di consolidamento del potere<br />

coloniale” e permetteva ai marxisti di teorizzare quel “mondo asiatico di produzione”<br />

che a volte rispunta quando oggi si fa riferimento all’Italia e soprattutto alla Cina.<br />

Se invece si analizza il sistema castale nella sua evoluzione storica si scopre<br />

come l’istituzione castale “si sia diversificata adattandosi ai vari contesti politici, assumendo<br />

connotati e funzioni variabili” e che la sua durata nel tempo è dovuta “soprattutto<br />

al fatto che tale sistema offrì vantaggi ai successivi amministratori del territorio<br />

indiano: sia alle élite brahmaniche e ai regnanti indù, com’è ovvio, sia ai governanti<br />

musulmani che si avvalsero delle caste più basse per avere manodopera non<br />

remunerata, sia pure ai coloni britannici che videro in una popolazione divisa e irreggimentata<br />

la garanzia di una prolungata sottomissione” (Bartoli, 2008: 85-89). E se è<br />

vero che solo <strong>gli</strong> inglesi riuscirono a intaccare il sistema castale garantendo per legge<br />

a<strong>gli</strong> intoccabili la possibilità di frequentare le scuole statali, è anche vero che, attribuendo<br />

valore di legge a norme che forse non erano mai state integralmente applicate,<br />

il Raj diede “un potente contributo alla ‘brahmantizzazione’ <strong>della</strong> società indiana,<br />

cioè alla sua cristallizzazione secondo le norme dell’ordine castale ortodosso”<br />

(Torri, 2005: 173). Ancora più radicalmente, l’antropologo americano N.B. Dirks sostiene<br />

che in realtà le caste sono un fenomeno moderno, nato dall’incontro tra l’India<br />

consenso di chi la subisce”, perché l’unica “conoscenza alla quale avranno accesso i dominati<br />

sarà la conoscenza che rafforza la loro adesione al dominio”, un dominio che in questo<br />

modo diventa necessario e naturale. Infatti, continua Bartoli (2008: 34-36), la violenza epistemica<br />

“non si applica soltanto al piano <strong>della</strong> <strong>della</strong> razionalità e <strong>della</strong> consapevolezza…, ma<br />

agisce sulla percezione, sul corpo e sulle emozioni”. Si crea così “l’habitus di una persona,<br />

ossia una disposizione pratica e generatrice di atti, relativamente stabile, che si ritrova in tutte<br />

le dimensioni dell’animo e del fisico… L’habitus produce l’accordo tra posizione sociale<br />

(dimensione soggettiva) e le disposizioni individuali, il saper stare al proprio posto metaforico<br />

e letterale”. La violenza epistemica “spaccia un’abitudine all’obbedienza per una “natura<br />

obbediente”“, per cui soggetto subalterno è “colui che subisce la violenza epistemica”.<br />

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