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L'eredità della Cina - Fondazione Giovanni Agnelli

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174 T.H. Barret<br />

nell’842-45, allorché una somma di motivi economici e religiosi portò l’imperatore<br />

a confiscare i beni buddhisti e a ridurre allo stato laicale migliaia di monaci buddhisti<br />

di ambo i sessi.<br />

Il sangha ottenne una migliore accoglienza presso la società cinese, anche se<br />

non vi venne mai accettato del tutto. La dottrina buddhista comprendeva alcuni<br />

elementi facilmente conciliabili con l’importanza attribuita dai cinesi alla famiglia.<br />

L’idea che le future reincarnazioni di pendessero dal karma individuale del passato<br />

può forse essere apparsa intrinsecamente strana per i cinesi, ma con un’estensione<br />

alle vite pas sate e a quelle future delle possibilità di miglioramento dell’uomo,<br />

que sta dottrina permise alle famiglie di sentirsi coinvolte più profondamen te nel<br />

destino dei propri antenati defunti. Ci sono molte prove che il buddhismo fosse<br />

già sensibile a questa dimensione sociale <strong>della</strong> religio ne prima di entrare in contatto<br />

con il culto degli antenati tipico dei ci nesi. E l’idea che i meriti religiosi acquisiti<br />

da un individuo possano ve nire trasmessi ad altri era un aspetto dell’altruismo<br />

Mahayana che si pre stava bene alla pratica <strong>della</strong> pietà filiale.<br />

Di particolare importanza per il benessere materiale del sangha fu la convinzione<br />

che i doni fatti ai monasteri fossero un modo straordinaria mente efficace<br />

di guadagnare meriti. I singoli appartenenti al sangha vi vevano sotto la regola del<br />

vinaya, che limitava severamente i beni posse duti dagli individui, ma i monasteri,<br />

intesi come collettività, potevano accumulare grandi somme di denaro impiegate<br />

non solo all’interno dei monasteri stessi, ma anche nell’acquisto di proprietà terriere<br />

che, con i loro redditi, permettevano ai monaci di dedicare tutta la giornata<br />

ad altri compiti. Dal tempo di Tao-an in poi, i monasteri cinesi vennero a disporre<br />

di poteri economici sempre più grandi e poterono mantenere numeri sempre<br />

crescenti di monaci a tradurre, copiare e studiare testi religiosi e a propagandare<br />

nella società la loro fede. Una situazione mol to diversa da quella del sacerdozio<br />

taoista, professione quasi sempre ere ditaria, che doveva il proprio sostentamento<br />

ai «clienti» che necessita vano di un esperto capace di occuparsi specificamente del<br />

sovrannatu rale. Forse, a lunga scadenza si trattava di una vita più sicura, perché<br />

non produceva abbastanza ricchezza da richiamare l’attenzione dello stato, ma non<br />

permetteva grandi sviluppi organizzativi. Il sangha buddhista, la grande famiglia<br />

che riuniva seguaci di scuole dottrinarie diverse, sug gerì ai taoisti un tipo di unità<br />

che permetteva una buona diversificazio ne tra i suoi appartenenti. L’abitudine<br />

buddhista di raccogliere i loro testi sacri, Mahayana e Hinayana, in un singolo canone<br />

suddiviso in va rie parti suggerì lo schema per riunire in un’unica raccolta le<br />

varie rive lazioni del taoismo. E l’esempio delle comunità buddhiste che vivevano

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