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L'eredità della Cina - Fondazione Giovanni Agnelli

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310 Michael Sullivan<br />

stole che si ricamavano a Lucca. I tessuti erano uno dei più preziosi do ni fatti<br />

dalla <strong>Cina</strong> all’Occidente. Tuttavia, ai tessitori e ai ricamatori italiani, che forse avevano<br />

letto Marco Polo, il Catai doveva parere in credibilmente lontano e irreale.<br />

Gradualmente, ci siamo familiarizzati con le forme e gli stili dell’arte cinese. Da<br />

dove ci è venuta questa com prensione? Quanto abbiamo imparato e capito? E<br />

quanto è stata arric chita, da questa comprensione, la nostra cultura?<br />

In questa sede vorrei fare una distinzione tra arte e artigianato. La differenza è<br />

importante, perché l’artigianato cinese è stato apprezzato fin da quando l’Occidente<br />

ha cominciato a importarlo. Nel secolo XVII si costruirono e si persero intere<br />

fortune sui carichi di porcellane «az zurro e bianco». Una storia ben nota è quella di<br />

un principe tedesco che diede una squadra di dragoni in cambio di una coppia di<br />

vasi cinesi. Paraventi cinesi si potevano trovare in molte delle grandi case d’ Europa.<br />

Ma perché si apprezzasse l’arte cinese appartenente a livelli più alti fu necessario<br />

aspettare l’attuale secolo. Nel 1858, una nota su di un’an nunciata esposizione di<br />

arte cinese all’Egyptian Hall di Piccadilly dice va: «A quanto finora sappiamo, tutto<br />

ciò che riguarda la <strong>Cina</strong> sembra eccentrico, strano, e pazzamente comico». Perciò<br />

non c’è da stupirsi che quattordici anni più tardi un collaboratore <strong>della</strong> Gazette des<br />

beaux arts affermasse sicuro di sé: «Ormai sappiamo tutto quel che c’è da sapere<br />

sull’arte cinese». E ancora nel 1935 il critico Robert Fry scriveva che i normali appassionati<br />

d’arte inglesi «si sentiranno felici alla presenza <strong>della</strong> paccottiglia di poco<br />

conto, le “chinoiseries” delle epoche più re centi, che si sono così bene acclimatate<br />

nei nostri salotti buoni, ma la grande arte, e soprattutto l’arte religiosa, la troverebbero<br />

scostante a causa <strong>della</strong> sua stranezza». Penso che Fry fosse un po’ troppo<br />

severo. Gli inglesi non hanno mai trovato scostante l’arte religiosa cinese, ma tutt’al<br />

più quella dell’India, a causa dei suoi connotati fisici troppo espli citi. Piuttosto, la<br />

pittura cinese era troppo rarefatta, troppo priva di en fasi, troppo elusiva, e i suoi<br />

ideali troppo intellettuali o troppo filosofici per piacere a un pubblico abituato al<br />

realismo e ai colori forti e alle com posizioni piene di un Michelangelo, un Poussin<br />

o un Delacroix, in cui lo spazio non esiste per se stesso, ma per circondare o individuare<br />

gli oggetti, e il colore è un elemento essenziale <strong>della</strong> composizione.<br />

Con questi ideali artistici in mente, l’Europa dei secoli XVII e XVIII pensò che<br />

la pittura cinese era affascinante, certo, ma incompetente fi no a sfiorare il ridicolo. Il<br />

grande missionario gesuita Matteo Ricci (1552­1610) scrisse: «Nello scolpire statue<br />

e nel fondere il bronzo man cano dell’abilità degli europei, e non sanno nulla di arte<br />

e di pittura a olio, né dell’uso <strong>della</strong> prospettiva nei loro quadri, con il risultato che

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