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IL DIRITTO FALLIMENTARE - Cedam

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366<br />

Il diritto fallimentare delle società commerciali<br />

et de jure, di sussistenza dello stato di decozione nel periodo sospetto tradizionalmente<br />

prefigurata dalla giurisprudenza (cfr. in tal senso Cassazione,<br />

29 novembre 1985, n. 5953): gli esiti istruttori potrebbero indurre a disconoscere<br />

la qualità di imprenditore esposto ad esecuzione concorsuale in capo<br />

al soggetto poi fallito al momento del compimento dell’atto ricadente<br />

nello spazio temporale sospetto, ancorché, sotto altro profilo, la menzionata<br />

presunzione assoluta valga a fondare inconfutabilmente il riscontro per l’intero<br />

periodo sospetto dell’insolvenza, insolvenza, si badi, concepita, in linea<br />

di principio, in imprescindibile connessione con la qualità di imprenditore<br />

assoggettabile ad esecuzione fallimentare.<br />

Infine, pur ad assumere che la sussistenza dello stato di imprenditore<br />

suscettibile di fallimento costituisca un presupposto autonomo della revocatoria,<br />

opinare nel senso che la dimostrazione della conoscenza della esistenza<br />

di detto status (lo si supponga senz’altro esistente al dì del compimento<br />

dell’atto revocando) costituisca uno specifico thema probandum, quantunque<br />

ai fini della valutazione della scientia ovvero della inscientia decotionis,<br />

sembra tuttavia rinvenire, allorquando l’imprenditore sia stato regolarmente<br />

iscritto nel registro delle imprese al tempo del compimento dell’atto, un<br />

insormontabile ostacolo nella previsione di cui all’art. 2193, comma 2, cod.<br />

civ. ovvero nell’effetto dell’opponibilità che la disciplina codicistica ricollega<br />

all’assolvimento dell’obbligo di iscrizione specificamente sancito a carico<br />

di colui che svolge un’attività commerciale dall’art. 2196 cod. civ. Più esattamente,<br />

siccome scriveva autorevole dottrina, «l’iscrizione del fatto lo rende<br />

sempre opponibile, non potendo i terzi addurre di averlo ignorato», l’efficacia<br />

dell’iscrizione (destinata altresì ad esplicarsi sin dal momento in cui è<br />

stata operata), cioè, «prescinde dalla possibilità in cui i terzi si siano trovati<br />

di prenderne conoscenza», sicché, prosegue la citata dottrina, «in definitiva<br />

tenere la revocatoria, quante volte quest’ultimo non riuscirà a dimostrare che il terzo conosceva<br />

la qualità di socio: il che è prova non facile, atteso che, mentre gli atti compiuti dall’imprenditore<br />

commerciale sono inerenti all’impresa, gli atti conclusi dal socio ben possono essere<br />

(e di fatto sono) personali e comunque «neutri» rispetto all’attività commerciale.<br />

Tale rilievo deve esser tenuto fermo, anche se si condivide l’interpretazione «estensiva»<br />

dello stato di insolvenza seguita dal tribunale: qui infatti deve provarsi che il terzo conosceva<br />

la qualità di socio dell’altro contraente, e quindi una circostanza da cui dedurre questa conclusione<br />

può, normalmente, esser rinvenuta proprio nella natura dell’atto compiuto. Allorché<br />

l’atto sia invece «non significativo» (perché non inerente all’impresa, ma personale del socio),<br />

la prova della stessa qualità di socio in capo all’autore dell’atto diventa evidentemente difficile.<br />

Si potrebbe addirittura immaginare che la società (e cioè l’amministratore, che potrebbe<br />

essere anche il socio illimitatamente responsabile) non abbia mai provveduto all’iscrizione nel<br />

registro, proprio per rendere più gravosa la successiva eventuale azione revocatoria del curatore<br />

e, nel periodo sospetto, abbia «alleggerito» il proprio personale patrimonio, avendo cura<br />

di non manifestare ai terzi il proprio vincolo con la società.

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