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IL DIRITTO FALLIMENTARE - Cedam

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Parte II - Giurisprudenza 385<br />

non accettare una remissione, ma non può impedire che il creditore rinunci<br />

al proprio credito, rispetto al quale la rinuncia non sia vietata o irrilevante<br />

per legge.<br />

La funzione economico-sociale della rinuncia, la sua causa, consiste nell’abbandono<br />

della titolarità del credito; sono irrilevanti i motivi dell’agire, in<br />

quanto non incidono sullo schema causale.<br />

Nel caso in esame, l’interprete si trova al cospetto soltanto dell’annotazione<br />

nei libri contabili della «rinuncia al credito»da parte di Palfin soc.<br />

per az.<br />

In mancanza di ulteriori elementi, si deve ritenere che Palfin soc. per az.<br />

abbia effettivamente compiuto una rinuncia in favore di soc. a resp. lim.<br />

Azienda vitivinicola ed olearia e non già una remissione del debito.<br />

Si tratta, in particolare, di una rinuncia in senso proprio o abdicativa, in<br />

quanto l’intento del rinunciante non è consistito in un proprium alienum fa-<br />

Sul piano della disciplina applicabile e degli effetti, è opportuno distinguere la remissione<br />

del debito non solo dalla rinuncia al credito (sul punto postea), ma anche dal cd. pactum de<br />

non petendo. In realtà, manca un apprezzabile interesse per operare quest’ultima distinzione<br />

nel caso di obbligazione soggettivamente semplice, allorquando il creditore si impegna in via<br />

definitiva (in perpetuum) a non esercitare il credito. Invero, chi si obbliga a non far più valere<br />

il credito di fatto vi rinunzia. Viceversa, la distinzione rileva quando il creditore si obbliga a<br />

non chiedere la prestazione per un certo tempo (nel qual caso si è in presenza di un accordo<br />

finalizzato alla dilazione dei termini di scadenza di un credito) o in presenza di determinate<br />

circostanze. In siffatta evenienza l’impegno non estingue l’obbligazione, ma ne limita unicamente<br />

l’esigibilità.<br />

La prevalente dottrina qualifica la remissione come un atto di rinunzia e la inquadra nell’ambito<br />

dei modi di estinzione delle obbligazioni a carattere non satisfattivo. Un orientamento<br />

minoritario in dottrina, invece, contesta l’assimilazione predetta, assumendo che la remissione<br />

del debito non avrebbe né l’oggetto né la struttura della rinunzia. In particolare, la rinunzia<br />

avrebbe ad oggetto unicamente la dismissione del diritto (come sostenuto nella sentenza<br />

in esame) e l’estinzione del debito che essa comporta costituirebbe un effetto riflesso<br />

e non necessario, potendosi riscontrare ipotesi di rinunzia al credito da parte del suo titolare<br />

che non comportano l’estinzione del debito. A tal ultimo riguardo, si fa l’esempio della rinunzia<br />

fatta dal concreditore solidale attivo. L’estinzione del debito rappresenterebbe, invece,<br />

l’effetto diretto e necessario della remissione.<br />

Alla tesi che contrappone remissione e rinunzia la prima teoria obietta che la remissione<br />

deve identificarsi in un atto di rinunzia, atteso che il creditore che rimette il debito di fatto<br />

rinunzia alla propria pretesa creditoria. Avverso l’esempio riportato a sostegno della necessità<br />

di tenere distinti i due istituti, viene evidenziato che, rappresentando il credito ed il debito<br />

termini coessenziali di un unico rapporto obbligatorio ed essendo le due posizioni correlative,<br />

l’estinzione dell’una comporta necessariamente l’estinzione dell’altra. In quest’ottica, la rinunzia<br />

fatta dal concreditore solidale attivo estinguerebbe il credito, sia pure limitatamente per la<br />

parte spettante al creditore rinunziante.<br />

Appare maggiormente condivisibile la teoria che differenzia la rinuncia al credito dalla<br />

rimessione del debito, ritenendo che la prima, rappresentando un mero atto abdicativo del<br />

diritto, non tollera il rifiuto altrui, a differenza della remissione, sì come statuito dall’art.

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