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IL DIRITTO FALLIMENTARE - Cedam

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Parte I - Dottrina 315<br />

6.6.), e non è il caso di ripetere cose già dette. Più interessante, invece, è<br />

segnalare che il principio espresso nella disposizione in esame costituisce<br />

una naturale evoluzione del sistema, volta a tenere conto dei problemi<br />

che sorgono quando la revoca non cade su operazioni isolate, ma ha ad oggetto<br />

dei flussi di risorse.<br />

In quest’ultimo caso, infatti, non si può prescindere dall’individuare i<br />

singoli atti revocabili (se non altro, per tenere conto dello stato soggettivo<br />

del convenuto), ma occorre trovare un meccanismo che si adatti alla peculiarità<br />

della fattispecie, impedendo che la revoca si trasformi da strumento<br />

di redistribuzione delle perdite, in strumento di riallocazione delle stesse<br />

(con effetto moltiplicativo) su quei pochi soggetti, che hanno intrattenuto<br />

col fallito intense e durevoli relazioni economiche.<br />

Del resto, non mi pare che la nuova disposizione si ponga in frontale<br />

contrasto con il principio enunciato dal vecchio art. 71: è vero, che tale norma<br />

si collocava in una prospettiva di sostanziale «rescissione» dell’atto revocato<br />

(l’eventuale credito del convenuto, da insinuare al passivo del fallimento,<br />

di regola si commisurava, infatti, alla controprestazione a suo tempo effettuata<br />

a favore del fallito); ma è anche vero che la predetta rescissione era,<br />

per così dire, «pilotata», in modo da commisurare, per quanto possibile, gli<br />

effetti dell’impugnativa al pregiudizio «tipico» arrecato dall’atto alla massa<br />

dei creditori (le conseguenze applicative della norma testé citata erano, pertanto,<br />

diverse a seconda che fosse stato impugnato un contratto a prestazioni<br />

sperequate, una fideiussione, la concessione di un’ipoteca, un conferimento<br />

in società, e così via dicendo).<br />

In altri termini, anche il vecchio articolo 71 aveva un fondamento equitativo,<br />

che la nuova norma ha sviluppato, adattandolo ad un diverso tipo di<br />

problemi.<br />

19. Prescrizione e decadenza. – Nell’intento d’imprimere un’accelerazione<br />

all’attività degli organi della procedura e di far consolidare entro un ragionevole<br />

lasso di tempo i rapporti giuridici sottoposti a revoca, la novella<br />

ha previsto (all’art. 69-bis) due ipotesi di decadenza dall’impugnativa (come<br />

si evince dall’epigrafe della norma, oltre che dal contenuto della delega), disponendo<br />

che «Le azioni revocatorie disciplinate nella presente sezione non<br />

possono essere promosse decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e<br />

comunque decorsi cinque anni dal compimento dell’atto».<br />

La norma risponde, soprattutto, ad un’esigenza di certezza, giacché gli<br />

istituti della consecuzione delle procedure concorsuali, della riapertura del<br />

fallimento e della sospensione della prescrizione – in tutte le fasi morte, precedenti<br />

o successive al fallimento, nelle quali le revocatorie non possono essere<br />

esercitate – ha consentito, in passato, d’avviare l’impugnativa dopo un<br />

impressionante numero d’anni dal compimento dell’atto.

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