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IL DIRITTO FALLIMENTARE - Cedam

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Parte I - Dottrina 299<br />

14.1. Il problema di capire se, in caso d’insolvenza, i patrimoni destinati<br />

di tipo a) possano essere autonomamente assoggettati alle procedure concorsuali,<br />

ha affaticato la dottrina fin dalla prima stesura delle nuove norme<br />

sulle società di capitali. Alcuni autori propendevano per la soluzione negativa,<br />

sulla base del rilievo che i patrimoni destinati non hanno personalità<br />

giuridica e, quindi, la loro eventuale incapienza rispetto ai debiti non potrebbe<br />

produrre effetti, che travalichino le caratteristiche strutturali dell’istituto.<br />

Altri replicavano che il nostro ordinamento conosce, in alcuni casi,<br />

il fallimento di patrimoni non personificati (ad esempio: l’eredità accettata<br />

con beneficio d’inventario); e che, se il patrimonio destinato non fosse sottoposto<br />

alle procedure concorsuali, ne risulterebbe gravemente fiaccata la<br />

tutela dei creditori particolari.<br />

Per risolvere il dilemma in maniera esplicita e definitiva il legislatore, in<br />

sede di revisione del nuovo articolato ( 15 ), ha modificato l’ultimo inciso del<br />

comma 2 dell’art. 2447-novies, precisando che – se l’affare è stato realizzato,<br />

o è divenuto impossibile, ed i creditori insoddisfatti hanno chiesto la liquidazione<br />

del patrimonio entro novanta giorni dal deposito del rendiconto<br />

presso il registro delle imprese – si «applicano esclusivamente le disposizioni<br />

sulla liquidazione della società».<br />

Questa modifica, a mio sommesso avviso, elimina la materia del contendere,<br />

giacché – mentre la precedente formulazione poteva lasciare il dubbio<br />

che il richiamo alle norme in tema di liquidazione servisse solo a rendere applicabili<br />

certe norme di condotta nella gestione dell’affare, senza tuttavia<br />

escludere il ricorso alle procedure concorsuali (proprio come accade quando<br />

si verifica un’ipotesi di scioglimento del rapporto associativo) – l’avverbio<br />

«esclusivamente», introdotto con le «correzioni» apportate nel dicembre<br />

2004, ha reso univoco il significato della norma, nel senso che, pur in presenza<br />

di pretese insoddisfatte (e quindi pure in presenza di una vera e propria<br />

insolvenza del patrimonio destinato), si deve escludere il ricorso alla liquidazione<br />

fallimentare, se la società, nel suo complesso, non è insolvente ( 16 ).<br />

( 15 ) Art. 20, d.lgs. 28 dicembre 2004, n. 310.<br />

( 16 ) La scelta compiuta dal legislatore è stata oggetto di serrate critiche da parte di chi<br />

osserva che il patrimonio destinato potrebbe gestire una vera e propria impresa, senza essere<br />

soggetto alle regole che governano il concorso fallimentare e che assicurano la par condicio<br />

creditorum.<br />

A mio sommesso avviso, il rilievo non può essere superato limitandosi ad osservare che il<br />

compendio di beni dedicato ad uno specifico affare non può superare il 10% del valore del<br />

patrimonio netto della società (art. 2447-bis, comma secondo), perché la società-madre potrebbe<br />

essere di grandi dimensioni e, soprattutto, perché il predetto 10% potrebbe incorporare<br />

quasi tutta la massa patrimoniale del predetto ente associativo, se l’attivo, oggetto di segregazione,<br />

viene bilanciato (come pure è possibile: cfr. l’art. 2247-ter, comma primo, lettera<br />

b) da un corrispondente ammontare di passività.

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