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IL DIRITTO FALLIMENTARE - Cedam

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322<br />

Il diritto fallimentare delle società commerciali<br />

Forse è opportuno partire dal rilevo che, nell’odierna realtà economica,<br />

le imprese in genere non falliscono (fatte salve le dovute eccezioni) a causa<br />

di comportamenti dolosi del debitore, che si appropria delle somme ricavate<br />

dalla vendita degli immobili, o trasferisce a parenti e amici i beni di maggiore<br />

rilevanza patrimoniale; ma falliscono a causa dell’andamento del mercato,<br />

o per errori strategici, che però non consistono in sperperi o in dolose<br />

dispersioni di risorse. Molto spesso, tutto ciò può essere agevolmente documentato<br />

sulla base della contabilità dell’impresa; come pure può essere documentato<br />

che la liquidità acquisita dalle vendite non è stata sottratta ai creditori,<br />

bensì reinvestita nell’azienda o utilizzata per effettuare pagamenti<br />

(spesso a loro volta revocabili).<br />

Non è difficile intuire dove vada a parare il mio discorso. Se quanto precede<br />

è vero, la completa equiparazione delle azioni revocatorie a quelle risarcitorie<br />

avrebbe reso, in pratica, inutilizzabile questo importante strumento<br />

di tutela dei creditori, in tutti quei casi (che sono i più numerosi nell’esperienza<br />

applicativa dell’istituto) nei quali la revoca si regge sul cosiddetto<br />

«danno indiretto», e cioè in tutte le ipotesi (a partire dalla vendita degli immobili),<br />

nelle quali l’atto viene impugnato perché crea una situazione di pericolo<br />

per i creditori: molto spesso, infatti, il convenuto potrebbe provare –<br />

sulla base, come si è detto, della stessa contabilità aziendale – che il prezzo<br />

non è stato disperso, ma è stato impiegato in modo proficuo per la massa (o<br />

è recuperabile con la revoca di certi pagamenti). Per non dire, poi, che, una<br />

volta messi su questa strada, si sarebbe dovuto concedere al terzo di dimostrare<br />

che il bene, comprato a prezzo vile, in seguito ha perduto il proprio<br />

valore; o che il pagamento è stato effettuato quando il patrimonio del debitore<br />

era ancora in grado di soddisfare tutti i debiti, e così via dicendo.<br />

Naturalmente, chi proponeva il ritorno ad una concezione «indennitaria»<br />

dell’istituto, non intendeva avallare soluzioni tanto contrarie alla nostra<br />

tradizione giuridica. Ma è stato un bene che il legislatore abbia evitato di<br />

dare la stura ad una serie d’equivoci su questioni così delicate.<br />

22.2. Forse, però, è ancora più importante segnalare che la nozione di<br />

danno, alla quale ci si richiama per risolvere una serie di problemi applicativi,<br />

non è unitaria, come sembrerebbe, ma ha un contenuto diverso, a seconda<br />

del contesto, nel quale viene utilizzata, o a seconda delle teorie elaborate<br />

dai vari autori.<br />

Per averne la riprova, è sufficiente ricordare che, per una prima corrente<br />

dottrinale, l’atto di disposizione sarebbe dannoso qualora abbia reso il<br />

patrimonio del debitore oggettivamente insufficiente a soddisfare le pretese<br />

dell’intera massa dei creditori; per un secondo orientamento di pensiero il<br />

danno sarebbe costituito, invece (almeno nella revocatoria ordinaria), dalla<br />

violazione della garanzia patrimoniale posta a tutela del singolo rapporto<br />

obbligatorio. Poi è incerto se gli effetti dell’atto debbono essere valutati

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