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IL DIRITTO FALLIMENTARE - Cedam

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Parte I - Dottrina 303<br />

È appena il caso di segnalare, infine, che l’impugnativa dell’atto di destinazione<br />

sarebbe comunque problematica, perché: se si facesse ricorso<br />

alla revocatoria fallimentare, la segregazione si consoliderebbe (per le ragioni<br />

già dette) nel termine breve di sei mesi; se si volesse utilizzare, invece,<br />

la revocatoria ordinaria, il buon esito dell’azione sarebbe messo in forse<br />

dall’esigenza di provare che gli amministratori della società (o almeno la<br />

loro maggioranza) erano consapevoli del pregiudizio arrecato dall’atto.<br />

Come si vede, dunque, questo strumento potrebbe essere utilizzato solo<br />

nel caso limite di una vera e propria collusione tra la società ed un gruppo<br />

di creditori.<br />

14.3. Il vero obiettivo da perseguire, allora, non è quello di revocare l’atto<br />

di destinazione, ma quello, semmai, di reagire ad un certo modo d’amministrare<br />

il patrimonio separato, al duplice scopo: di neutralizzare gli effetti<br />

di certe scelte gestionali e d’eliminare le eventuali discriminazioni tra le<br />

varie classi di creditori.<br />

Al riguardo, però – ferme restando le ipotesi di revoca, di cui si è parlato<br />

nel precedente paragrafo – occorre distinguere due sottoinsiemi d’operazioni:<br />

da un lato, collocherei gli atti (lato sensu programmatici) con i quali<br />

si dispone di un bene del patrimonio destinato, o si contraggono nuove obbligazioni,<br />

poste a carico dello stesso; dall’altro lato, collocherei le fattispecie<br />

(appartenenti alla sfera esecutiva) con le quali si costituiscono delle garanzie<br />

reali per le predette obbligazioni, o le si estingue con risorse del patrimonio.<br />

14.3.1. La prima categoria di operazioni deve poter essere revocata sulla<br />

base delle norme di diritto comune, perché: se la società dovessedonare<br />

dei beni del patrimonio destinato, o venderli a prezzo vile; se, con gli stessi<br />

beni, dovesse pagare o garantire i propri debiti (non legati al compimento<br />

dello specifico affare); se dovesse stipulare dei contratti, o assumere obbligazioni<br />

prive di giustificazione economica; se la società, insomma, dovesse<br />

compiere sul patrimonio destinato dei veri e propri abusi, il danno, che ne<br />

deriva, finirebbe necessariamente col ripercuotersi su tutti i creditori,<br />

compresi quelli che non hanno nulla a che vedere con la gestione «autonoma».<br />

È vero, infatti, che i beni segregati debbono servire, innanzi tutto, ad<br />

patrimonio destinato ai creditori ai quali sia stato concesso un pegno o un’ipoteca (ai sensi del<br />

comma 1 dell’art. 67) o un diritto di prelazione (ai sensi del comma 2 della stessa norma): il<br />

tutto, ovviamente, presuppone l’impugnabilità di certe attribuzioni indirette (per uno spunto<br />

analogo, in materia di revoca dei conferimenti in società, rinvio al Commentario Scialoja e<br />

Branca, III, pag. 314 seg.).

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