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IL DIRITTO FALLIMENTARE - Cedam

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Il diritto fallimentare delle società commerciali<br />

sunto specifici impegni, o perché hanno modificato i termini delle loro pretese<br />

(rinunciando ad una parte delle stesse o dilazionandone le scadenze), o<br />

perché hanno acquistato dei beni o compiuto degli investimenti indispensabili,<br />

nel tentativo di superare la crisi (con esclusione, cioè, di coloro che si<br />

sono limitati a prendere atto dell’accordo, senza parteciparvi attivamente);<br />

iii) tutti coloro che erano venuti a conoscenza, al tempo dell’atto, dell’esistenza<br />

del predetto piano di riequilibrio; iv) tutti coloro che hanno compiuto<br />

degli atti nell’intervallo di tempo che va dall’approvazione del piano alla<br />

dichiarazione d’insolvenza (o alla diversa data, nella quale si è potuto pubblicamente<br />

constatare l’insuccesso del tentativo di risanamento).<br />

Come si vede, il problema è delicato: per un verso, potrebbe sembrare<br />

ovvio riservare il privilegio dell’esenzione della revoca a quei soli soggetti,<br />

che si sono adoperati per il superamento della crisi; per altro verso, si potrebbe<br />

ritenere che, se il piano poteva ritenersi idoneo ad eliminare l’insolvenza,<br />

i suoi effetti benefici avrebbero dovuto propagarsi a tutti coloro che<br />

avevano intrattenuto rapporti d’affare con il debitore, fino al momento in<br />

cui non fosse nuovamente scoppiata la crisi.<br />

A mio sommesso avviso, in questa materia occorre «contestualizzare» la<br />

valutazione dei singoli atti e procedere con una certa dose di sincretismo.<br />

Come s’è detto, infatti, il fondamento dell’esenzione va trovato – non in<br />

un’asserita oggettiva eliminazione dello stato d’insolvenza, che non è mai<br />

possibile provare ex post, ma – in un particolare apprezzamento della condotta<br />

di chi ha partecipato al piano ed ha corso dei rischi nella ragionevole<br />

convinzione di dare un contributo al superamento della crisi. In altri termini,<br />

la posizione di chi non ha partecipato attivamente al piano sarà valutata<br />

secondo i consueti canoni, che impongono d’agire con particolari cautele<br />

nei confronti di un soggetto, che versa in difficili condizioni economiche<br />

(non per nulla ho sempre sostenuto che la «conoscenza dello stato d’insolvenza»,<br />

di cui parla l’art. 67, legge fallim., non presuppone l’esistenza di tutti<br />

i presupposti per la dichiarazione del fallimento) ( 9 ). Chi, invece, ha mostrato<br />

di credere nel risanamento dell’impresa (ed è arrivato ad investire<br />

proprie risorse per conseguirlo) va trattato con maggiori riguardi; sempre<br />

che il predetto «investimento» sia compiuto in buona fede, e non si risolva<br />

nell’ennesima speculazione ai danni della massa.<br />

Tutto ciò può apparire come il frutto di un atteggiamento moralistico,<br />

poco conforme alle vedute del mercato. A me sembra, invece, che la soluzione<br />

proposta sia giustificata dall’esigenza di ricondurre l’istituto della revocatoria<br />

al suo fondamento ultimo, costituito dalla frode; nonché dalla<br />

( 9 ) Cfr. Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, Tomo I,<br />

Parte generale,inCommentario Scialoja e Branca alla legge fallim., a cura di Bricola e Galgano,<br />

art. 64-71, Bologna-Roma, 1993 (d’ora in poi: Commentario Scialoja e Branca, I), pag. 247 seg.

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