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IL DIRITTO FALLIMENTARE - Cedam

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Parte I - Dottrina 289<br />

massa l’eventuale esubero tra il predetto valore e l’ammontare del capitale<br />

investito; b) il concedente, dunque, non può aspirare a due risultati diversi,<br />

a seconda che venga pagato (o meno) il riscatto, giacché l’utile ricavabile<br />

dall’operazione si commisura, in ogni caso, ad un ammontare fisso, costituito<br />

dalle somme date in prestito, con l’aggiunta (lo vedremo tra poco) degli<br />

interessi nel frattempo maturati; c) questa stessa pretesa, del resto, gli viene<br />

riconosciuta, anche se non dovesse trovare capienza nel valore finale del bene<br />

concesso in godimento, giacché «il credito vantato alla data del fallimento»,<br />

che il comma 3 consente d’insinuare al passivo, non può non includere<br />

«il credito residuo in linea capitale», di cui parla il comma 2.<br />

Se quanto precede è vero, sul piano sistematico se ne può dedurre: a’)<br />

che il rapporto ha perduto (almeno ai fini del suo trattamento in sede fallimentare)<br />

ogni connotato d’aleatorità, per quanto concerne l’importo delle<br />

prestazioni dovute, fermo restando (com’è ovvio) il rischio legato all’insolvenza<br />

del debitore; b’) che il capitale deve essere restituito, a prescindere<br />

dal valore del bene concesso in godimento, proprio come accade nel mutuo<br />

(ed a differenza di quanto accade nei contratti di scambio); c’) che il bene<br />

concesso in godimento assume quindi, sul piano economico, il ruolo di una<br />

semplice garanzia (anche se la disciplina del rapporto, come vedremo subito<br />

in appresso, è molto diversa da quella dei diritti reali di prelazione); d’)<br />

che la remunerazione della prestazione creditizia è limitata agli interessi incorporati<br />

nei canoni scaduti prima della dichiarazione di fallimento; e’) che<br />

vi è, dunque – per esprimerci con la terminologia proposta da una vecchia,<br />

ma autorevole, dottrina – una netta separazione tra il «rapporto di sostituzione»<br />

(che attiene alla restituzione delle somme mutuate) ed il «rapporto<br />

di godimento» (che attiene al pagamento delle usure o d’altro corrispettivo<br />

della prestazione creditizia), cosa che non poteva certo evincersi da un esame<br />

del regolamento negoziale voluto dalle parti ( 12 ).<br />

( 12 ) Le considerazioni svolte nel testo presuppongono che venga accolta – nell’individuare<br />

la natura giuridica della prestazione creditizia – la cosiddetta «teoria del godimento»,<br />

idealmente contrapposta alla «teoria dell’agio»: secondo la prima, la causa del mutuo (e degli<br />

altri contratti di credito) sarebbe costituita dal far godere per un certo periodo di tempo (pari<br />

alla dilazione) la somma data in prestito; per la seconda, la causa del mutuo consisterebbe in<br />

uno scambio tra beni presenti e beni futuri.<br />

La scelta tra le due tesi, a mio sommesso avviso, non è arbitraria, ma è imposta al giurista<br />

da precise norme di legge: in particolare, nel nostro ordinamento, dagli articoli 820 e 821 del<br />

cod. civ., dai quali si ricava che gli interessi sono il «corrispettivo del godimento» di somme<br />

altrui e che gli stessi maturano giorno per giorno, in ragione della «durata» del diritto.<br />

Per le implicazioni sistematiche dell’impostazione accolta dal codice (nonché per un’interpretazione<br />

un po’ meno ingenua delle metafore utilizzate dalla legge nel regolare il rapporto)<br />

mi permetto di rinviare al mio Appunti per uno studio sullo sconto bancario, inEconomia e<br />

credito, nn. 3-4, Palermo, 1984.

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