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Le parole rimaste - Edit

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La cultura di massa in prospettiva socialista<br />

operaio che ha lavorato per anni come scaricatore di porto e come tipografo<br />

e che ha pure cercato fortuna in America, ma ne è ritornato presto, “senza<br />

più illusioni”. Il narratore sottolinea gli occhi “scintillanti” di Toio mentre<br />

aiuta i partigiani, spiega il suo “entusiasmo” per la ricostruzione della città e<br />

ne offre un’immagine ingenua, specie per ciò che riguarda le questioni politiche<br />

e sociali:<br />

Ma varie volte gli veniva fatto di chiedersi come mai a Fiume si vivesse bene<br />

mentre altrove, a Milano, per esempio o a Torino – c’era stato ed aveva visto –<br />

gli operai soffrivano la fame.<br />

È significativa, nel passo citato, la sottolineatura “c’era stato ed aveva visto”,<br />

necessaria a Guerrini per confermare la veridicità del narrato e per dare un valore<br />

documentario al proprio racconto.<br />

Si tratta in genere di racconti, poesie e servizi giornalistici ripetitivi, che sembrano<br />

esser scritti secondo modelli preconfezionati e che rivelano piccoli errori, indicatori<br />

dell’autocensura alla quale doveva sottoporsi il “lavoratore culturale”.<br />

Un errore di questo genere viene commesso da Giacomo Scotti nell’articolo<br />

del 19 dicembre 1951 intitolato “Tradizioni dignanesi” 183. In esso Scotti descrive<br />

le tradizioni, i lavori artigianali e i costumi popolari dei boumbari, cioè dei<br />

dignanesi, deplorando con tocco poetico la dimenticanza nella quale sarebbero<br />

caduti gli antichi usi. Accorgendosi probabilmente della piega decisamente nostalgica<br />

che l’articolo aveva assunto nella descrizione idilliaca del passato e dei<br />

rapporti cordiali tra i dignanesi, Scotti (o il redattore) conclude così:<br />

Oggi, pur conservando e tramandando il folclore, sono scomparse le antiche costumanze<br />

del regresso. <strong>Le</strong> mani delle donne non si consumano più sui laboriosi<br />

ricami (...), anche a Dignano è entrata per le strade strette la modernità, con le<br />

nuove concezioni e le nuove tradizioni.<br />

Spenta l’euforia in preda alla quale si narravano gli eroici giorni della lotta e<br />

della rivoluzione, la prosa “dell’entusiasmo del combattente e del vincitore, della<br />

documentazione serrata, del monocolore ideologico” si fa via via più pacata,<br />

la scrittura diventa più “spassionata, costruttiva” in quanto “l’eroe” inizia a studiare<br />

il proprio intimo, le proprie paure e le proprie reazioni nei confronti della<br />

guerra 184. Gli scrittori si sottraggono alla retorica e alle situazioni-tipo delle precedenti<br />

imprese narrative partigiane e, come sottolinea Eros Sequi nella recen-<br />

183 GIACOMO SCOTTI, “Tradizioni dignanesi” in «La Voce del Popolo», 19 dicembre 1951, p. 3.<br />

184 “<strong>Le</strong>tteratura di guerra” in «La Voce del Popolo», 3 agosto 1956, p. 3. Non viene indicato l’articolista.<br />

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