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Le parole rimaste - Edit

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622<br />

Capitolo VI | Dire in dialetto<br />

luogo natio inteso come prezioso vivaio di tradizioni e di cultura, l’intenzione di<br />

valorizzare, conservare e rilanciare un idioma che rappresenta un vero fenomeno<br />

linguistico, e che per l’autore diventa la lingua-rifugio di un orgoglioso esilio,<br />

una lingua concepita come strumento puro dell’anima che, sottratta ad ogni<br />

subalternità culturale, è capace di recuperare una nozione di poesia intesa come<br />

rapporto personale e critico tra l’io e il mondo circostante. Come tutti i poeti<br />

rovignesi, anche Benussi sente ed esprime un forte bisogno di appaesamento,<br />

e l’esigenza di guardare il mondo e di pronunciarlo non da una condizione di<br />

estraneità e spoliazione, ma con i propri strumenti e senza mai abdicare ad essi.<br />

Nel segno della continuità, anche Benussi fa proprio l’aspetto più caratteristico<br />

della lirica rovignese: il modo di descrivere la natura e di aderire all’ambiente<br />

con il ricorso a toponimi locali, il cui uso rivela il desiderio di ancorarsi ai luoghi,<br />

di evocarli nominandoli. Benussi manifesta maturità sul piano della ricerca linguistica,<br />

utilizza un linguaggio incisivo, che presenta spessori simbolici e metafisici<br />

notevoli, specialmente nella rappresentazione della natura e dell’ambiente.<br />

I versi semplici ma profondi, che toccano anche temi di vasta portata e attualità,<br />

rendono intatto il senso di una lingua antica, che s’impone all’autore come lingua<br />

naturale e che, come nota bene Irene Visintini, “s’intreccia all’identità” 1067.<br />

Difatti, l’istrioto rappresenta un assioma costitutivo dell’identità rovignese, un<br />

potente strumento di autoriconoscimento istintivo dei rovignesi autoctoni, un<br />

bene culturale intimamente legato alla vita ed alla storia della comunità italiana.<br />

Ormai in disuso nella comunicazione quotidiana, l’arcaico idioma rappresenta<br />

una sorta di salvacondotto ed ha un ruolo importante nella conservazione e nella<br />

trasmissione di un patrimonio unico di valori umani e culturali.<br />

Vlado Benussi ha chiara la consapevolezza del bisogno di rileggere la propria<br />

vicenda nella propria lingua, voce e musica dell’anima, irrinunciabile custode<br />

di memorie e ricordi. Il dialetto concede la piena consustanzialità di veduto,<br />

vissuto e scritto e salda la sorte privata a quella comunitaria. Come lingua della<br />

memoria e dell’infanzia, capace di limpida espressività e sonorità, per Benussi il<br />

dialetto è la lingua in grado di esprimere gli affetti più cari quali l’amore per la<br />

madre in El tu non [Il tuo nome] (2000), che lo ha accompagnato nella vita con<br />

«oûna man ameîga / anche intùi / navareîni pioûn inbarbuiàdi» 1068 e per il figlio<br />

in A ma feîo [A mio figlio] (1998) cresciuto «masa a la ∫vièlta/ ch'i nu ma iè manco<br />

inacuòrto» 1069, verso il quale l’autore ha un senso di colpa per non essergli<br />

stato abbastanza vicino e per non averlo sempre accompagnato nella crescita:<br />

«Maladida primoûra / da ièsi in squàra cu’ i altri / e cun tei spiso in dièbito / ca<br />

1067 IRENE VISINTINI, Prefazione, nell’Antologia del XXXV concorso di “Istria Nobilissima”, 2002, p. 10.<br />

1068 «una mano amica / anche nei temporali più imbronciati»<br />

1069 «troppo in fretta / che non me ne sono nemmeno accorto»

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