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Le parole rimaste - Edit

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358<br />

Capitolo IV | Dall’era del socialismo reale<br />

Prestiamo dapprima attenzione alle opere Poesie istriane e La voracità del tempo,<br />

anche considerato che le produzioni che le hanno seguite per alcuni aspetti si<br />

distinguono – pur appartenendo allo stesso filone – e pertanto vanno esaminate<br />

separatamente.<br />

I florilegi Poesie istriane e La voracità del tempo sono di tutt’altra fattura rispetto<br />

alla poesia di viaggi e di montagna, nel senso che in essi l’autore ostenta la volontà<br />

di immettersi in un percorso poetico trasparente, buono a denudare le segrete<br />

passioni e le recondite depressioni e rinunciatario all’autocensura. Infatti,<br />

nonostante l’atteggiamento censorio rimanga anche in queste sillogi indiscutibilmente<br />

presente (dal momento che al poeta riesce ancora impensabile – per<br />

via di una riluttanza pudica – lo scoprirsi integralmente), esso si è assai attenuato<br />

e non esaudisce più la necessità dell’autore di mimetizzarsi camaleonticamente<br />

all’interno dei propri versi (come accade nel filone alpestre e di viaggi, dove la<br />

sua personalità è sì ben presente, eppure di frequente si maschera fra le righe,<br />

negli anfratti dei paesaggi 653), ma risponde ad una sua salutare esigenza difensiva<br />

a non darsi del tutto.<br />

Nei versi delle raccolte prese in considerazione è avvertibile (e in quelli esotico-alpini<br />

no) il desiderio e il bisogno del poeta di dire ciò che in fondo sa che<br />

in realtà non deve apertamente confessare poiché, facendolo, rischierebbe di<br />

provocare in sé una catarsi liberatoria di tali dimensioni da intaccare, per assurdo,<br />

nientemeno che le fondamenta di quanto nella sua produzione lirica va proferendo:<br />

cioè da un lato la propria recondita ostinazione a conservare integro<br />

– seppur solo in forma rievocativa – l’antico mondo agreste istriano, dall’altro<br />

la propria insanabile perseveranza a estendere e a mantenere pur sempre vitali<br />

i trasporti emotivi infantili sperimentati in quella immacolata (agli occhi di un<br />

bambino) civiltà remota.<br />

L’antico mondo agreste istriano è sempre stato per Schiavato il mondo per<br />

eccellenza. Un mondo povero eppure ancora a misura d’uomo, un mondo che<br />

ha retto agli avvenimenti politici determinanti l’esodo, all’industrializzazione e al<br />

653 Mattino in malga della silloge Alpi Giulie è una lirica che può essere fornita ad esempio della smania<br />

di Schiavato a vestire i panni della natura o almeno di confondersi con lei: «Un’ultima stella indugia<br />

/ sulla sulla dorsale del monte / e già i larici s’indorano / nella quinta nera dei pini. // Scricchiola<br />

la brina / sotto il passo quieto / e il canto delle ghiandaie / allarga il cuore. // Qui il mondo non<br />

ha echi: / le stelle sono calde, / turgide degli umori / di quel mondo perduto / nei giorni troppo<br />

uguali». Il “mondo perduto” è quello dei sentimenti incontaminati dell’infanzia campestre che<br />

il poeta ritrova soltanto nei paradisi ambientali ancora relativamente intoccati. I “giorni troppo<br />

uguali” sono quelli dei ritmi della società tecnologica e cittadina, cadenzata dal rincorrersi serrato e<br />

incalzante delle lancette dell’orologio, i cui rintocchi di solito generano, nel vivere ecologicamente<br />

sballato delle collettività moderne e post-moderne, dipendenza dalle istituzioni e sudditanza verso<br />

una organizzazione sociale superiore e sovrastante l’individuo, verso un’organizzazione che si attiene<br />

sempre meno alle naturali e istintivamente comprensibili leggi dettate dalla circumnavigazione<br />

della Terra attorno il Sole.

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