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Le parole rimaste - Edit

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Lidia Delton<br />

può darle. La poesia della Delton s'intride così dei più riposti sapori e umori della<br />

parlata dialettale nella quale si rispecchiano temperamenti, fisionomie e condizioni<br />

sociali del mondo dignanese e nella cui ricchezza espressiva c'è la storia<br />

di secoli e secoli, la vita di tante generazioni. Lasciarsi sprofondare nelle acque<br />

silenti di un universo quasi del tutto estinto, sentir rivivere dentro sé come proprie<br />

le <strong>parole</strong> ormai quasi impronunciate degli avi, per la Delton significa riaccostarsi<br />

ad una dimensione più autentica, immediata, in cui è dato ancora muovere<br />

i propri passi per dare inizio a al dialogo con ciò che ci circonda, per disporsi<br />

all'ascolto delle cose. Secondo la propria coscienza di parlante, rinnegare<br />

il dialetto per l'autrice diventa un peccato imperdonabile, è come rinunciare alla<br />

propria anima, all'unica lingua di possibile intesa rinvenuta nel luogo dove affondano<br />

le radici di famiglia, dove antropologia e memoria hanno lasciato sedimenti,<br />

dove è possibile camminare col passo della gente, «la me zento», con i personaggi<br />

della contrada natia (indicativa la silloge Fra i mouri de Santa Catereina, in<br />

quil de Dignan [Tra i muri di S. Caterina, in quel di Dignano], con i contadini che<br />

«jeri cumo ancui, / luri fa senpro el stiso lavur, / i va senpro par i stisi leimidi»<br />

[ieri come oggi, / loro fanno sempre lo stesso lavoro, / vanno sempre lungo gli<br />

stessi sentieri], in un'aspirazione squisitamente corale.<br />

Molti poeti dialettali novecenteschi hanno fatto non della morte in sé ma della<br />

memoria dei morti un topos poetico, che diviene punto d’appoggio sul quale<br />

comporre e interpretare il presente. Purtroppo lo scorrere del tempo ha prodotto<br />

amputazioni e ha causato perdite alle quali non si può porre rimedio ma<br />

quanto è passato può condurre a luoghi profondi, mai completamente smarriti,<br />

che appartengono a ciascuno e all’umanità; nello stesso punto in cui risiede la<br />

morte, lì ha origine la fonte della vita e la possibilità stessa di edificare costruzioni<br />

umane. Neppure la Delton dimentica i morti di famiglia. Nella lirica Ouna veicia<br />

fotografia [Una vecchia fotografia], il rinvenimento di un albo di vecchie fotografie<br />

diventa pretesto per avviare un rapporto "d'amorosi sensi" con i defunti.<br />

La parlata vernacolare si addolcisce e si fa fresca seta nei versi in cui la Delton<br />

racconta di nonna Matiusa, di zia Macaca e nonno Zaneto, morti ma vivi nella<br />

memoria, fermati per sempre con i loro vestiti che «a no se purta pioun» [non si<br />

portano più] in quelle sbiadite fotografie e nei suoi versi. La sensibilità dell'autrice<br />

è tutta intenta a fissare i quadri della memoria mentre la nostalgia del passato<br />

diventa coscienza della sua trasformazione, e volontà di preservarne gli elementi<br />

migliori, quelli che sono fondamentali per la sopravvivenza della comunità.<br />

Ma il suadente e melico dialetto sa possedere anche una carica di denuncia<br />

quando affronta gli stravolgimenti e le trasformazioni della sua realtà, quella a<br />

cui aderisce e corrisponde, come nella lirica I nuvi rivai [I nuovi arrivati]. Eppure<br />

non è questa denuncia, questo atteggiamento risentito la forza, o l'impegno, della<br />

poesia della Delton: essa compie, in primo luogo, un servizio civile nei confronti<br />

della propria lingua. La responsabilità prima di chi fa poesia è nei confronti della<br />

lingua, e di questo la Delton ci pare consapevole. Perciò, il senso più profondo<br />

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