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Le parole rimaste - Edit

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512<br />

Capitolo VI | Dire in dialetto<br />

ne della lingua letteraria, che sia espressione di chiusura e autarchia culturale,<br />

che sia bandiera di un’inconfondibile identità culturale, emblema d’esasperati<br />

e pericolosi particolarismi, nonché strumento di rivalsa di una minoranza, che<br />

si considera elitaria, rispetto al modello linguistico dominante. Non va negato<br />

che oggi il dialetto sia “usato” anche come arma di difesa per proteggere e<br />

preservare la cultura locale da aggressioni e compressioni talvolta violente, ma<br />

questa appare come una difesa del tutto legittima, un atto di resistenza “pacifica”<br />

come quello praticato, per esempio, dai poeti, che si ostinano a scrivere<br />

nei dialetti locali accettando di prendere in mano il mutamento per gestirlo, in<br />

lotta contro il tempo lineare.<br />

Il dialetto va riconosciuto per quello che è: un fattore comunicativo e culturale<br />

vivo, se è viva la cultura locale, se è viva l’identità (non immutabile) del<br />

gruppo umano che lo parla, uno strumento di creatività ed espressività finché<br />

esiste una collettività che vi si riconosce e che attraverso di esso si conosce.<br />

La comunità dialettale, con la sua unità di luogo, lingua e comunicazione,<br />

non è solo un dato, ma un mito. Come mito, in sé non è né buono né cattivo.<br />

Può diventare cattivo se pone alla comunicazione limiti geografici e linguistici<br />

talmente stretti da soffocarla. È buono se, con l’attaccamento a un territorio<br />

e a una comunità, favorisce il rispetto e la conservazione del suo patrimonio<br />

umano e culturale specialmente quando, come avviene oggi, si sta facendo<br />

largo un po’ ovunque il timore che tutto possa diventare uniforme, che<br />

ogni differenza possa venir spazzata via dallo standardizzarsi dei costumi, dei<br />

modi di vita, che possa compiersi la detrazione del passato, che possano venir<br />

strappate non solo le radici locali ma addirittura quelle nazionali, che venga<br />

rubata l’identità.<br />

Non si può prevedere il futuro del dialetto, ma sia concessa una speranza,<br />

per quanto utopica possa sembrare: che la furia devastatrice di quello che chiamiamo<br />

progresso tecnologico, che sembra essere il destino dell’umanità, non<br />

cancelli le tradizioni e i valori linguistici e culturali diversificati, non annulli le<br />

diversità, la pluralità delle espressioni. Sebbene si faccia sempre più concreta<br />

la minaccia di omologazione attraverso un linguaggio planetario, e lo schiacciamento<br />

delle <strong>parole</strong>, delle culture e delle tradizioni non sia cosa di un futuro<br />

molto lontano, bisogna sperare che questo apocalittico scenario non si compia<br />

mai. Il giorno in cui dovesse verificarsi, ciò sarebbe certo il frutto di una mutazione<br />

così profonda dell’umanità e dell’uomo, animale per eccellenza culturale,<br />

della quale non possiamo, e non vogliamo, neppure immaginare la portata.<br />

Il posto che ci piace immaginare per il dialetto è lo stesso che forse è destinato<br />

alle venerande lingue nazionali. Chi ha la fortuna di averlo imparato, continuerà<br />

a provare la gioia di rivolgersi nel proprio dialetto a chi lo parla e lo capisce,<br />

nell’ambito di un consapevole e maturo plurilinguismo, continuerà a pensare e<br />

sentire seguendo, per così dire, un doppio binario mentale, avendo dentro di sé<br />

un altro deposito affettivo, o un ulteriore varco.

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