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Le parole rimaste - Edit

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568<br />

Capitolo VI | Dire in dialetto<br />

Ancora un ambiente ‘terragno’ nella coeva sestina El mièio uòrto [Il mio orto],<br />

ma qui l’orto è soltanto un pretesto, la nicchia che raccoglie creature che crescono<br />

in silenzio curate da mani stanche («criaotoûre ca crìso in silènsio / raguvàde<br />

da man stànche») e che accoglie le riflessioni del poeta sui temi che più<br />

lo assillano: la pesantezza della vecchiaia, l’albero (personificazione dell’autore)<br />

''cun fòie zàle'', i passi di piombo, il respiro ''pioûn spoûrco''. Il vero centro tematico<br />

curtiano.<br />

Emblematiche sono in proposito due poesie dal titolo quasi uguale, scritte<br />

però a distanza di un ventennio l’una dall’altra. La prima s’intitola L’uspadal<br />

[L'ospedale], la seconda Uspadal [Ospedale] e l’uso dell’articolo determinativo,<br />

nella prima, e la sua soppressione, nella seconda, sono assolutamente cruciali.<br />

Cambiano completamente il punto di vista, la prospettiva. Nel primo caso,<br />

l’ospedale è considerato e commentato da un visitatore partecipe, dal poeta-osservatore;<br />

nel secondo, il poeta è l’oggetto-prigioniero del luogo-ospedale, è lui il<br />

paziente-degente. A rimanere sempre lo stesso è l’ospedale, inteso come ambito<br />

di inquietanti misteri e di angoscianti fantasmi (tropo che compare in ambedue<br />

le liriche), e non di rassicuranti terapie: una funesta tappa nel percorso esistenziale,<br />

malincononico e inappellabile preludio alla fine.<br />

Riportiamo i due testi integralmente.<br />

L’uspadàl<br />

Canpana ca sona omi strachi<br />

grumasi da noûmeri, par un archeîvio<br />

fi uri in un bicier, ca spieta la gioûsa<br />

nuote da fantazmi, albe ca nun reîva mai<br />

cuorvi bianchi, fra li vanieze<br />

curnace da dùi culoûri, da fora e da drento<br />

cuorvo cù la gresta, la cal sa zlarga<br />

sureîzi da lagrame, zuta li man sa strenzo<br />

saniciareîni cun cruz, da quil puovaro Creîsto<br />

sierti zbùla...e i altri, ven fracadi da la pruopria cruz 976.<br />

976 L’uspadal [L’ospedale]: «Campana che suona, uomini stanchi / mucchi di numeri per un archivio<br />

/ fi ori in un bicchiere che aspettano la goccia / notti di fantasmi, albe che non giungono mai<br />

/ corvi bianchi tra i fi lari / cornacchie a due colori di fuori e di dentro / corvo con la cresta, la<br />

strada s’allarga / sorrisi di lacrime, sotto le mani si stringono / passeri con la croce di quel povero<br />

Cristo / alcuni volano...e gli altri sono schiacciati dalla propria croce».

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