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Le parole rimaste - Edit

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Capitolo IV | Dall’era del socialismo reale<br />

riale e morale nel vagheggiamento di un arcaico e incorrotto mondo contadino.<br />

Su questo assioma puramente pasoliniano Damiani afferma: «sarebbe profeta<br />

disarmato chi (...) deluso volgerebbe gli anni / verso un porto mistico che ignori<br />

/ il rischio e la bellezza della lotta nell’abbandono in Cristo. No, «la sproporzione<br />

dei mutati valori / della storia non consente scelte / elusive»; e poco avanti<br />

chiede direttamente al poeta chiamato in causa: «Ma che alternativa / mi hai offerto<br />

oltre lo scherno / di una realtà che non muta?» <strong>Le</strong> scelte per Damiani non<br />

devono essere «elusive», e la vera alternativa secondo lui è nel «rischio» e nella<br />

«bellezza della lotta», cioè nell’impegno. Che comunque non mancò a Pasolini,<br />

né in arte né nella sua applicazione politica e nemmeno nello spendere la vita.<br />

Anche se in seguito alla sua ‘retromarcia idealistica’ innescata intorno gli anni<br />

Sessanta era abbastanza diffuso, nella cerchia degli intellettuali di sinistra, il parere<br />

che egli, a causa dell’’infatuazione’ per l’incontaminata civiltà contadina, si<br />

era avulso dal referente oggettivo della realtà.<br />

Dalla lettura della lirica A Pasolini s’evince, in ogni caso, che il rapportarsi di<br />

Damiani con il passato non è di ‘natura totemica, totale e divinatoria’ in quanto<br />

l’innato problematicismo che lo distingue (e che dà l’impronta caratterizzante<br />

ad ogni sua opera: dalla poesia alla narrativa, attraversando la drammaturgia e<br />

finanche il giornalismo) mette sì sotto tiro le sostanziali piaghe contemporanee,<br />

ma non per celebrare in eccessivi encomi il passato più o meno lontano, e dunque<br />

nemmeno l’antichità, a sua volta messa sotto la lente di un implacabile giudizio<br />

che non concede accondiscendenti sconti dacché, quando egli guarda alla<br />

storia trascorsa, lo fa soppesandola attentamente nei pro e nei contro. Pescando<br />

cioè in essa solo quelle prerogative e quelle virtù ritenute vitali per ogni civiltà,<br />

sia essa tramontata o sia essa ancora proiettata nel futuro.<br />

Nella poesia A Pasolini Damiani chiede al poeta friulano: «ricordi la fame / di<br />

giustizia e di verità? le lunghe / soste sull’orlo di giorni inutili?», e poi confessa:<br />

«Qui, fraterno e virile, a me giunse / il soccorso di Ilič» 770. Subito dopo, però,<br />

aggiunge: «compagno / è crollato un mito sul nostro cammino».<br />

Damiani pensa al mito del Paese comunista più grande del mondo, l’Unione<br />

Sovietica, che ha trascinato nel proprio precipizio, scavato con l’indebita aggressione<br />

all’Ungheria e alla Cecoslovacchia, non solo la fede di molti nel comunismo<br />

ma di contraccolpo pure il nome e la popolarità di <strong>Le</strong>nin. Per cui Damiani<br />

invita Pasolini a ricongiungersi con i suoi, con i «compagni» che credono<br />

ancora nella fattibilità dell’ideale socialista e nei «padri dell’età nuova» ( Marx,<br />

Engels e <strong>Le</strong>nin – quelli non ancora demitizzati), per «proseguire l’opera / consapevoli<br />

che nessuna eredità / d’ingegno, di pianto d’ideali / matura frutti spontanei<br />

/ o il futuro balzi dal passato / senza il nostro concorso».<br />

770 Ilič: si tratta di Nikolaj <strong>Le</strong>nin (pseudonimo di Vladimir Ilič Uljanov).

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