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Le parole rimaste - Edit

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Alessandro Damiani<br />

nazionale. L’Occidente, che pur aveva dato i natali a Marx ed Engels, ma non a<br />

<strong>Le</strong>nin, “le rivoluzioni le sogna, non le attua: perché in fondo non ci crede” 720. Di<br />

fronte al dileggio del loro messianesimo disarmato e il non riconoscimento della<br />

serietà del loro impegno, anche le forze sovietiche sono costrette a ritirarsi.<br />

Ed ecco scatenarsi in Europa, dopo il venir meno dell’ultima possibilità di redenzione,<br />

una terribile, sconvolgente potenza ignota, dalle conseguenze devastanti<br />

che porterà all’arretramento, addirittura all’età del ferro: le migrazioni provenienti<br />

dall’area del perenne sottosviluppo assumono proporzioni di valanghe preistoriche.<br />

Sulle orme dei mirmidoni cinesi, interi popoli dell’Asia meridionale e insulare,<br />

dell’Africa nera e dell’ex impero del petrolio, si muovono lungo i tracciati delle invasioni<br />

millenarie. Un punto di non ritorno, un nuovo terribile e irreversibile ciclo<br />

della storia umana. In un crescendo di calamità, che travolgono inesorabilmente<br />

anche la vita del vecchio, negli scenari apocalittici di un’Europa distrutta e saccheggiata<br />

si alternano la fame, l’inedia fino al cataclisma, al flagello dei secoli più bui, e<br />

cioè la peste che spopola il mondo. Un intreccio di spaventose tragedie e faticosissime<br />

riprese dei pochi miseri superstiti, tra cui il vecchio, rifiutato dalla morte, infinitamente<br />

solo dopo la scomparsa dei suoi, eppure ancora capace di cercare un<br />

impegno, di mantenere i contatti umani, aggregandosi a una carovana di nomadi.<br />

Ritorna il tema della denuncia antinaturalistica, delle perplessità o impossibilità<br />

del ritorno alla vita libera. Il senso profondo del messaggio del vecchio, sostenuto<br />

dalle terribili esperienze che lo hanno fortificato, si avverte nelle suggestive<br />

<strong>parole</strong> di chiusura che evocano il titolo del racconto:<br />

Una notte all’addiaccio vidi il vecchio della tribù seduto sul ciglio di un gebbione.<br />

Mi avvicinai. Immobile, fissava uno specchio d’acqua, dove la luna si rifletteva<br />

(…). “Che fai?” – gli chiesi. Mi rispose senza distogliere lo sguardo: “Cerco<br />

la strada per la mia gente”. “Come la cerchi?” “Fissando l’immagine della dea”.<br />

“Non faresti meglio a guardarla direttamente?” “No. La dea della notte si copre<br />

di vapori, ma l’acqua la sveste”. “E con questo?” “Nuda mi indica la meta”. Rudimentale,<br />

antica saggezza; o perenne, anche se talvolta inconsapevole, imbroglio?<br />

Il mattino seguente abbandonai la carovana. Non mi serviva la luna, tanto<br />

meno nel pozzo 721 .<br />

“La luna intesa come metafora di un risultato raggiunto ovvero della felicità<br />

inutilmente ottenuta perché sperperata come una ricchezza” 722 o colta come<br />

simbolo di una via che non fa più per l’uomo: sono queste le verità enunciate<br />

in quest’opera dal tono grave e solenne o amaramente ironico, cui è sotteso il<br />

720 Ivi, p. 197.<br />

721 Ivi, p. 208.<br />

722 Ivi, p. 17.<br />

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